mercoledì 21 settembre 2011

STEVEN WILSON "GRACE FOR DROWNING" (KScope, 2011)




Cosa accade se uno dei più talentuosi musicisti tra quelli emersi ad inizio dei 90s, osannato dapprima dalle schiere di fan orfane dei Pink Floyd e poi (negli Anni Zero), una volta screditata la vena psichedelica ed il suo gruppo entrato nel roster di una delle label più altisonanti in campo metal (e divenuto quindi superstar mondiale, grazie anche alla sua attività di produttore), scopre in mezzo al deserto una antica epigrafe che consente di riattivare un portale posizionato su una frattura dimensionale che permette di tornare in epoche passate?

PHASE ONE. La-lai-la-la. Mr. Wilson si scalda la voce con qualcosa a metà strada fra un esercizio di lallazione e un canto sillabico: "Grace For Drowning" inizia con la languida lucentezza della title-track e il sapore di una tarda estate dei Sixties, con la radio che trasmette i Beach Boys e con il piano (sui tasti le dita di Jordan Rudess dei Dream Theater) a girovagare per qualche spazio siderale, forse a causa di una qualche interferenza cosmica sulla cui frequenza viaggiano, surfando, i Muse. Fra le spiagge della California e Sirio. Ma è con Sectarian che entra in funzione la caleidoscopica macchina del tempo che stavolta ha ideato Steven Wilson: in questo imponente strumentale il congegno per viaggiatori spazio-temporali viene settato per rimanere in Inghilterra ma nel periodo in cui i King Crimson avevano già abbandonato tanto le sponde romantiche dei primi due album (“In The Court Of The Crimson King” del 1969 e “In The Wake Of Poseidon” del 1970), quanto i lidi sperimentali in odor di jazz del terzo e quarto disco (“LIzard” del 1971 e “Islands” del 1972), che comunque riemergeranno prepotentemente nel corso di questo "Grace For Drowning", dando forma e sostanza a quelle asperità chitarristiche e a quelle poliritmie che sarebbero divenute la loro nuova nota caratteriale (qui si stabilisce un nesso molto stretto con quel portentoso pezzo che risponde al nome di Fracture su "Starless and Bible Black" del 1974). In Sectarian il gioco non finisce qui, essendo ben evidenti passaggi che rimandano alle intemperanze dei National Health, alle anarchie strutturali degli Henry Cow e, ancora, ai Crimson del 1994 (quelli di "Thrak" e del doppio trio per intenderci), con i loro contrappunti supersonici (vedi la title-track Thrak, richiamata a gran voce). Tutt'attorno un poderoso muro sonoro a base di hammond e mellotron, nonché lo sputare fuori l'anima del sax soprano di quell'incredibile musicista che è Theo Travis che qui incrocia le armi con il clarinetto di Ben Castle (nella Steve Hackett Band). Uno Steven Wilson così cocciutamente retrò non lo si era conosciuto neppure ai tempi di "The Sky Moves Sideways" (1995) quando la musa dei Pink Floyd era quella più manifesta. Qui è la band di Fripp ad essere focus e fuoco ispirativo: i King Crimson sono da sempre presenti nelle circonvoluzioni cerebrali del giovane Wilson (ricordate Dislocated Day?), ma ora nel Wilson della maturità sembra definitivamente caduto quel velo di ipocrisia che, nello scorso decennio, lo ha portato a camuffare le proprie influenze, pianificando brani e dischi talvolta in antitesi alle sue intime e più vere inclinazioni. Wilson ha dichiarato di recente che proprio durante il lavoro di remastering della discografia "in cremisi" (ed in particolare dell’ambiziosissimo "Lizard" del 1970), questo sentiero è parso quello necessario da percorrere. Posso confermare, da quasi coetaneo, che effettivamente superati i 40 la spocchiosa voglia di dichiararsi alternativi ad ogni costo passa quasi del tutto in secondo piano, preferendo rifar pace con le passioni adolescenziali. Entrare nella testa e nelle logiche di Fripp, deve aver innescato nel quarantaduenne musicista inglese quel processo di insana identificazione che colpisce certi giornalisti di cronaca nera intenti a descrivere le menti criminali di quei serial-killer che seguono da una vita. Deform To Form a Star è una delle cose più belle e sincere mai uscite dalla mente e dal cuore di Steven Wilson: i brividi mi scorrono lungo la schiena ogni volta che, in questi giorni di agosto morente, è entrata nelle mie orecchie e quindi nel cervello e giù nell'anima, come un pozione dolce e vivificante. Pensando al suo repertorio, cercando di individuare dei precedenti musicalmente accostabili, mi verrebbe di indicare quelli che reputo fra i pezzi più intensi in assoluto dell'esperienza Porcupine Tree: Stop Swimming, Buying New Soul, Collapse The Light Into Earth. Una ballata "spaziale" di ampissimo respiro, introdotta da un piano struggente e sognante e sottolineata da un elegante basso (Tony Levin), che incorpora un liquido assolo di chitarra del padrone di casa (tra i suoi più belli). E poi, nel finale, una tempesta acustica che sembra contemplare gli anfratti più seducenti di “Lightbulb Sun” (2000). Davvero non c'è alcun margine di rimpianto nei confronti di quanto Wilson ha scritto in passato, essendo così luminoso il suo oggi. No Part Of Me è un'altra traccia importante del lavoro, che è in grado di dimostrare, attraverso la dedizione all’esaltazione di ogni singolo suono, quanto Steven Wilson sia cresciuto professionalmente: una base percussiva elettronica concitata ma delicatissima (sembra uscita da “100th Window” dei Massive Attack, mentre invece è interamente ad opera di quel genio creativo di Pat Mastellotto, drummer in carica con i Crimson dalla reincarnazione degli Anni '90 fino all'ultimo album in studio del 2003), che apre la porta ad una sezione d'archi funzionale e mai fuori luogo (caratteristica che manterranno tutti gli interventi della London Session Orchestra nel corso di "Grace For Drowning"), mentre Nick Beggs e Trey Gunn (impegnato anche alla Warr Guitar) ricamano al basso punteggiature di grande suggestione, con un rarefatto assolo di Theo Travis al clarinetto, reminiscente Jan Garbarek, che introduce ad una seconda sezione in cui il pathos generale si accosta a quanto invocato dai Tool e nella quale prorompe una pindarica batteria e una stralunata chitarra (che pare uscita da No Twilight Within The Courts Of The Sun dal debut album solista del 2008, "Insurgentes"). Da segnalare la presenza dell'ottimo Markus Reuter, leader dei Centrozoon e fra i più validi degli ex-allievi di Mastro Fripp, alla sua "touch guitar". Con Postcard si cambia registro: qui l'autore pare voler sintetizzare e palesare la sua vena più marcatamente pop, realizzando uno strano ma riuscito ibrido fra i Coldplay di “Viva La Vida” (2008) e i suoi Blackfield: per quanto "leggera" e po' fuori contesto rispetto agli stilemi di "Grace For Drowning", Postcard rimane gradevole, grazie all’incantevole arrangiamento degli archi, incupendosi appena un po' negli ultimi trenta secondi. Significativo anche il lavoro vocale realizzato con il Synergy Choir protagonista del preludio a quel “pezzo da 90” dell'album, Raider II, di cui parleremo più avanti e nel quale ritornerà prepotentemente il coro, in modalità tali da esternare ipotesi meritevoli di un parallelismo con i Magma. Il primo dei due Cd si chiude con i nove minuti di Remainder The Black Dog: un reiterato fraseggio di piano le da il via e riporta ancora prepotentemente indietro nel tempo, riconducendo in una qualche piega dimensionale nella quale si sovrappongono i National Health, i King Crimson di “Lizard” (Happy Family, in special modo), i Van Der Graaf Generator, gli Henry Cow e addirittura i Dream Theater "evoluti" apprezzati in brani come New Millennium o Scarred. Verrete investiti da mille schegge sonore impazzite, che alla velocità della luce vertiginosamente ruotano in un turbinio che convoglia sax, hammond, allucinanti assalti di batteria (Nic France), distorti assoli di chitarra (ospite d'onore, Steve Hackett), progressive "old school", avant-jazz, prog-metal, rock in opposition, che permette di tornare, stravolti, a riveder le stelle solo negli ultimi minuti.

PHASE TWO. Il tempo di cambiare dischetto, e si subito è avvolti dalle note sognanti e malinconiche dello strumentale acustico Belle de Jour (si riassaporano certi acquerelli solisti dell'ex-chitarrista dei Genesis), in grado di lenire un po' le ferite inferte dai tanti sussulti. La paranoia, tematica ricorrente nelle liriche di Wilson, trova naturale prosecuzione in Index, adagiata su una angosciante ritmica che evoca i fantasmi dei Nine Inch Nails (di cui ancora una volta è artefice Pat Mastellotto), in un testo che parla di un collezionista che riesce a sentirsi vivo solo fra oggetti inanimati, indipendentemente dal fatto che questi siano rifiuti raccolti dalla spazzatura o macabri feticci umani. Abandoner sul precedente "Insurgentes" portava già in sé questa tetra ma feconda vena impressionista. Gli archi ancora una volta (London Session Orchestra) hanno un ruolo decisivo in una atmosfera veramente malata. Anche la successiva Track One prosegue su sentieri mentali e musicali decisamente disturbati (che fanno riaffiorare Salvaging su "Insurgentes"), che sfoga in una eruzione maligna, anche se gli arpeggi di acustica nel finale danno l'impressione che il buio sia passato. E invece no, perché ormai si giunge all'epicentro di questo "Grace For Drowning": l'immane precipizio di Raider II, ovvero ventitré minuti di musica totale e totalizzante (altrettanto duravano The Plague Of Lighthouse Keepers dei VDGG e Lizard dei King Crimson, composizione con la quale qui ogni riferimento è tutt’altro che casuale). Andrebbe ascoltata in completa oscurità, ma gambe e cuori tremeranno, per questo suo indurre a librarsi sul baratro. L'incipit stesso è degno di un introdursi in un antro oscuro, perdendo la speranza di incontrare qualcuno capace di indicare la diretta via ormai smarrita. Ad un certo punto alcune familiari note riecheggianti La Carrozza di Hans (PFM) o The Court Of The Crimson King, sembreranno venirvi a salvarvi la pelle, sulle ali di un flauto. Ma molta strada bisognerà ancora attraversare prima di percepire la rassicurante rugiada del mattino e davanti dovranno ripassarvi tutte le entità del "tempo antico" che in varia misura abbiamo, fugacemente o meno, già incontrato nel percorso: Henry Cow, Soft Machine, Van Der Graaf Generator, National Health, Magma e ovviamente i King Crimson (in tutte le loro essenze dal '69 al '74) si scambieranno rapidamente la scena, senza darvi neppure il tempo di riconoscerli prima di mutare ancora. Spesso a condurre le trasformazioni sono dei serratissimi frangenti in cui tastiere e chitarre si inseguono senza tregua (dal retrogusto prog-metal), che sembrano pedissequamente usare la forma adottata dai KC in un brano possente come Level Five su “The Power To Believe” (2003). Eppure tutto inspiegabilmente funziona: il coro, gli inserti di clarinetto, flauto e sax (sempre ad opera di Theo Travis), la strumentazione realmente "vintage", l'ispirato assolo di pianoforte di Rudess, la voglia di elaborare la stesura di un manifesto sonoro, non saprei dirlo cosa renda tutta questa massa oscura credibile e coerente con questo scrutarsi alle spalle, con uno sguardo rivolto a quarant'anni indietro nel tempo, alla ricerca delle (proprie) radici. Davvero non saprei dirlo, visto che anch'io ho condiviso percorsi musicali comuni a quelli di Wilson per poi abbandonarli in cerca di rinnovamento. Non posso rispondere: conviene lasciarsi telluricamente cullare dal finale di questa infinita Raider II, che omaggia, tirandola per le lunghe, quello dell'immortale Red (il gruppo non lo cito più). Il secondo supporto e dunque l'intero "Grace For Drowning" ci saluta in punta di piano, con Like Dust I've Cleared From My Eye, una solare ballata con una sensibilità degna degli I Am Kloot, che aumenta di consistenza lentamente (ritroviamo Tony Levin) e che pare ricongiungersi all'abbacinante luccichio della title-track. Il finale sembra troppo tenue (non debole), specialmente perché non ha abbastanza "materia adiposa" per reggere il peso schiacciante del magnum opus che la precede. Il disco per forza di cose non è esente da lungaggini e anzi, contenendosi un po', avrebbe potuto più agevolmente entrare in un unico dischetto della durata di 70 minuti, filtrando certe divagazioni evitabili (vedi la stessa Raider II). Un merito particolare va a Dave Stewart, che ha curato gli arrangiamenti degli archi e dell'ensemble vocale Synergy, elaborando partiture efficaci che non risultano mai ridondanti. Se "Insurgentes" aveva aperto la serratura, dischiudendo le porte del mondo segreto del leader di no-man e Porcupine Tree, costituendo una tappa cruciale del suo discorso artistico, "Grace For Drowning" è lo stargate spalancato su un universo alternativo, che si chiuderà alle spalle di chiunque lo imboccherà.

CODA. La dissertazione su un album così poliedrico e denso meriterebbe analisi da angolazioni differenti, anche se mi rendo ben conto per alcuni (o molti, chissà...), l'aspetto di esaltazione della fase più creativa dell'epopea Progressive (1969-1974), possa costituire la più imperdonabile delle colpe. In tale valutazione, va tenuto conto che Wilson, in questo 2011, portando a casa un risultato significativo in termini di sintesi fra passato e presente, incarna il ruolo dell'uomo giusto nel posto giusto: quest'anno, oltre ad aver concluso il mix in 5.1 di una ulteriore tranche di album storici della formazione di Fripp (“Starless and Bible Black” e “Discipline”), è stato in cabina di regia per le reissue di altre due opere fondamentali del Prog dei Seventies: "In The Land Of Grey And Pink" dei Caravan e "Acqualung" dei Jethro Tull, entrambi del 1971. Perciò nonostante molti interrogativi rimarranno aperti (sentenzierà il tempo, come sempre, il miglior critico e giudice musicale), sarà difficile non tentare di darsi una risposta all'unica questione plausibile: cosa sarebbe accaduto se un personaggio come Steven Wilson fosse nato quindici anni prima?

Stefano Fasti



La recensione è stata originariamente pubblicata su Storia della Musica: http://www.storiadellamusica.it/Steven_Wilson_-_Grace_For_Drowning_(KScope_,_2011).p0-r4242


Official Artist Site: http://www.swhq.co.uk/

Official Album Site: http://www.gracefordrowning.com/

Italian Fan Site: http://www.porcupinetree.it/

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