venerdì 12 agosto 2011

TALK TALK "SPIRIT OF EDEN" (1988)

Inauguro questo blog con la pubblicazione della recensione uno di quegli album la cui bellezza prescinde ogni confine e ogni definizione. Per me è uno di quei dischi che fa parte della mia vita. Buona lettura...




Con un piede ancora nell’Eden
Io sto fermo

E guardo di là, verso l’altra terra.
La grande età del mondo sta decadendo.
Come sono strani i campi che abbiamo seminato
Lungamente a messi d’amore e d’odio.
[...]
Male e bene stanno insieme uniti
Nei campi della carità e del peccato,
Dove noi ammucchieremo il nostro raccolto.
[Un Piede nel’Eden da “Un Piede nell’Eden”, 1956, Edwin Muir]

Il poeta scozzese, nato nel 1887 a Deerness, nelle Orcadi Minori (isole dell’Isola), che più dei suoi contemporanei ha rappresentato l’archetipo del topografo dell’Eden, sarà il vate al mio fianco in questa revisione di mappe geografiche alla ricerca di un luogo dimenticato. La sua poetica, reincarnata nella voce e nei testi di Mark David Hollis, mi darà il supporto emotivo alla ri-scoperta dell’Eden.

Parte I: Topografia dell’Eden

Un lento inoltrarsi per lande desertiche, attraverso lo snodarsi di strade polverose e battute dal vento, in una qualche remota provincia rurale degli Stati Uniti. Dispersa in qualche arida steppa in Oklahoma, Utah o Texas occidentale. O in una qualche desolata distesa del Great Basin. Lontano dal grande caos delle megalopoli. Vecchi binari di ferrovie lungo i quali camminare: borghi abbandonati che avrebbero potuto essere perfette location per qualche pellicola western d’annata. Qui non c’é nulla di pittoresco o di poeticamente selvaggio. L’opprimente primordialità del territorio fa eco alla primigenia necessità di sopravvivenza. Strano pensare che l’Eden sia nei paraggi, eppure è così. Deve essere così. Dopo un lungo metaforico viaggio transoceanico dalle fredde terre d’Albione, lo Spirito soffia verso Ovest. Il bagaglio deve essere leggero come la luce che qui acceca e distorce. Via le cose che non servono e ciò che resta, ancorché essere scarno e asciutto, è quanto di più denso sia possibile immaginare. Il passo deciso verso un nulla che è tutto, dentro un vuoto che è pieno, verso nessuna destinazione. Fine di tutto, inizio di ogni cosa.

[...]
Conscio di dove ho sbagliato
Smarrito, corrotto
Questa è la canzone che canta il prigioniero
Il mio tempo è trascorso.

Risuona il canto della vittima
Il processo è passato
Il processo prosegue
[The Rainbow]

Guardare l’arcobaleno senza la salda speranza per il ritorno del sereno, ma senza nemmeno il triste rammarico per il temporale che, a breve, riprenderà. Immaginare un viaggio nei minimi dettagli, ma confidando solo nel potere della suggestione. Nell’aria secca e tra i resti arruginiti si rivela la più intima essenza dell’incontro fra l’uomo e Dio, in terra. Nella terra. Su questa terra. In fin dei conti qui siamo nell’Eden, e l’Eden è di questa terra. Il Paradiso, per fortuna, non c’entra nulla. Quindi l’immaginario topografo compie questo pellegrinaggio, nell’apparente desolazione dal quale l’uomo ha finto di prendere le distanze. E se l’Eden fosse ancora lì e fossimo solo noi, condannati, a non vederlo?

L’estate perde il sangue dell’Eden
L’erede pasquale spodestato
Un altro destino giace defraudato sul terreno
Una ingioiellata ghirlanda funebre poggiata sulla ragione
Il fiore frantumato
Concepisce un bimbo dal dolce odore, così distinguibibile
Lasciato in eredità
[...]
[Eden]

Ricordare. Ricordarsi. Cercare di farlo, seguendo il profilo delle cose, nel sentiero dell’abbandono. Ritrovare le coordinate ancestrali in fondo alla sabbia della nostra mente, sotto gli strati a lungo sedimentati del nostro inconscio collettivo. Riscoprire familiari percorsi mai compiuti, certi che è nel silenzio che si cela la natura divina dell’uomo. O l’umana natura di Dio.
Sussurri e non grida. Quindi la riscoperta dell’Eden non può essere solo geografica, visto che un pezzo di strada è dentro di noi, nella carne. La riscoperta dell’Eden è antropologica e passa per queste membra stanche.

[...]
Solo felice di abbandonare l’ansia
Piuttosto che affogare dentro me stesso.

Ho una mente
Le cui difese sono spezzate
A cui sono stati negati doni rubati
Questo non sono io, babe
Non ho neppure la più basilare scusa per me stesso.
[Desire]

L’eredità dell’Eden è un canto d’Aprile, risale i rivoli nei quali si è nascosta la vita.
La colpa potrà anche essere collettiva, tramandata da padre in figlio, ma il riscatto può essere individuale. Ognuno può tornare a rivedere l’Eden, a risalire il lungo muro di confine, anche se in rovina e rivelatore solo di un altro posto che pare abbandonato da Dio e dagli uomini. Un cancello arrugginito, divelto: da fuori sembra impossibile credere che dentro ci sia ancora qualcosa di fertile. Da fuori.

[...]
Figlio della natura
Sai dove sia andata a finire la vita?
La sepoltura procede nelle nuvole
Così impariamo a indugiare
Con la testa nella sabbia
Aspettando che l’impassibile trovi un rimedio
Una ascensione in una fine da stimolare.
Figlio della natura
Sai dove sia andata a finire la vita?
[Inheritance]

Una eredità perduta, scambiata per qualcosa da quattro soldi che però deve essere parsa, ad occhi avidi, come qualcosa per la quale davvero valeva la pena smerciare la propria vita, nella sua più completa essenza. Qualcosa per la quale valeva la pena barattare l’Eden. E l’unica sopravvivenza, con questa ricompensa da quattro soldi o da trenta denari, ci ha relegato ad una vita con la testa sotto la sabbia. Facciamo bene a cercare in mezzo alla polvere e al deserto, dove la sabbia abbonda. E’ qui che deve compiersi l’innalzamento della schiena da una curva che ci ha sotterrati. Qui dobbiamo riscattare la nostra eredità: una eredità che ancora ci aspetta, una eredità che ancora, forse, ci spetta. Malgrado non l’abbiamo meritata.

[...]
Mondo paralitico,
Non ce la faccio a portarlo da solo,
Soltanto per vedere che inizi a dirmi quanto io ne abbia paura.
Ho comprato pregiudizio al posto del mio benessere
Ne è valsa veramente la pena
Quando assaporo che quanto basta non basta davvero
a tenere il dolore sufficientemente nascosto?
C’é un tempo per vendersi
E c’é un tempo per andare oltre.

Spirito,
Da quanto tempo!
[I Believe In You]

Un prezzo troppo alto se ciò che abbiamo sacrificato è la stessa verità della vita. Spirito, quanto tempo è che non ti vedevo più? Come ho fatto rendermi così cieco?

Pochi portano ancora il loro raccolto
Lungo il muro in rovina e il cancello rotto.
Nel lontano entroterra splende la collina radiosa.
Inviolabile il vuoto cancello,
Invalicabile il muro aperto;
E il monte che sovrasta ogni cosa.
[...]
C’é una dolcezza nell’aria
Che fiorì all’inizio del tempo,
Ma ora sta morendo ovunque.
[...]
La colpa sta accanto all’innocenza.
Perciò questo popolo preferisce  vivere qui
E da qui non pensa mai di allontanarsi,
Né di porsi domande.
[Fuori dell’Eden da “Un Piede nell’Eden”,1956, Edwin Muir]

Ecco dunque le coordinate segrete. L’Eden è ancora lì e dentro di noi. Il recinto è aperto ma lo stato di non libertà che viviamo offusca il nostro sguardo. E pensiamo di essere liberi solo perché ci illudiamo che lo spazio nel quale ci muoviamo è più vasto, senza accorgerci che quel muro di recinto non è lì per separare l’Eden, bensì il resto di questa terra, questa terra confusa da una aberrazione di libertà. Ecco dunque: non siamo noi, liberi, fuori dal muro di cinta dell’Eden. Piuttosto, noi siamo prigionieri, dentro il poderoso muro di cinta della nostra vuota terra di incompiuta libertà. Abbiamo confuso la vastità con la libertà, non comprendendo l’infinità di questa prigione, non comprendendo che la vita vera, l’Eden stesso è dentro le cose piccole. La favola della cacciata è una stortura della realtà. L’uscita dall’Eden è solo una auto-condanna, un esilio volontario.
Esseri limitati dunque, esigui, nel corpo, nell’intelligenza, nell’ispirazione, nella durata delle esistenze, che hanno preteso di incorporare, di incarnare l’immensità, questa immensità erroneamente concepita come libertà, questa potenzialità erroneamente considerata infinita. Sarebbe stato meglio portare a pieno compimento una sola cosa che rimanere ebbri in questa illusoria illimitata possibilità d’azione, frutto di una incapacità nel riconoscersi “finiti”. Da dove ricominciare dunque? Dove dirigere i nostri sforzi?

Costruisci sulla mia pelle
Percorri la vicinanza al mio respiro.
Saldati al mio respiro
Rifletti la mia pelle
La ricchezza dell'amore
Sarà testimone agli anni
Prendi la mia libertà

Costruisci sulla mia pelle
Rendi casa la mia testa
La mia libertà è tua per avermi dato un amore sacro.
[Wealth]

Riscattato è il lascito dell’Eden. Le fondamenta sono nel cuore e nell’anima, nell’arrendevolezza alla vera libertà, nella roccia non friabile del vero amore. Allora l’Eden lo si può respirare già sulla pelle. Il dono della propria libertà è un gesto che anziché togliere spazio d’azione, lo espande all’infinito. L’Eden ancorché essere uno spazio chiuso è il luogo che propaga ogni emozione, ogni sensazione. La misura delle cose è uno stratagemma umano e nega l’infinito. Nell’Eden tutto ciò non conta: nell’Eden l’uomo rivela la propria natura infinita che prescinde dalle dimensioni del suo orizzonte.
Ciò che conta è che quello che era perso è stato ritrovato. Ciò che era invisibile è infine rivelato.

Parte II: Le vie sonore dello Spirito

Quanto bene avrei visto i Talk Talk, questi Talk Talk nella colonna sonora di Non bussare alla mia porta, film del 2004 di Wenders. Quanto bene la loro musica, questa musica, ne avrebbe riempito i panorami brulli, descrivendo le inquietudini del protagonista, un uomo giunto alla fine di una carriera d’attore Western ma anche esausto personaggio da rotocalchi scandalistici (e forse anche al termine del suo percorso su questa terra), che va alla ricerca di un riscatto della propria natura umana. Quanto bene avrei visto e sentito i Talk Talk in qualcuno dei roadmovie di Wim Wenders (anche lui proveniente dalla profonda Europa): film profondamente, intimamente spirituali. Magari proprio nel suo roadmovie per eccellenza, Fino alla fine del mondo del 1991. E chissà, forse non è ancora troppo tardi.
Ma anche alcune dolenti storie dei fratelli Coen avrebbero potuto fare da colonna visiva all’immanenza di Spirit Of Eden.
Fatto sta che quella di Spirit Of Eden è una musica che rimanda contemporaneamente all’infinitamente piccolo e all’immensamente irraggiungibile. All’intimo sfiorare di spazi apertissimi. Due estensioni dello stesso essere, due significati dello stesso tempo.
E il deserto sembra essere il posto ideale nel quale ambientare la musica di Spirit Of Eden, in grado di rammentare tanto l’umano, nello stanco arrancare nella polvere, nel cercare di sopravvivere, quanto l’oltre-umano, nello smarrire lo sguardo verso l’orizzonte. Un orizzonte talmente ampio da poterti far morire di sete, lì dove sei, e da farti contemplare temporali a centinaia di miglia di distanza. O forse un arcobaleno. L’arcobaleno. Il disco rivela già nelle prime note, nei primi accordi, l’epifania dolorosa e salvifica dei sui sviluppi. Il ritmo è lento, dilatato, appoggiato sulle distese che sembra evocare. Il suono è ruvido e dolce, e non cerca una via di mezzo: piuttosto esalta i contrasti. Aboliti definitivamente i synth, la natura dei Talk Talk diviene tanto eterea quanto terrena, quasi ad echeggiare la natura stessa dell’Eden. Le modalità sono quelle del blues: sofferenza e speranza. Bluesamericana. Gli stivali sono sporchi, la mente è invece pulita, lucida. Le caratteristiche ricorrenti sono lo sferragliare della chitarra (spesso in modalità slide), lo sputare sangue dell’armonica, il narcolettico incedere della batteria (spesso dal sapore amaramente jazz), il lento sudare di un pianoforte, il profondo respiro dell’organo, l’asprezza di una voce che non si ritaglia spazi di protagonismo e rifugge ogni perbenismo formale. Questo è ciò a cui The Rainbow da l’avvio. Uno volta in viaggio non ci si ferma. Il pulsare di questo battito dell’anima avvolge completamente Eden: l’orgasmo dei sensi sembra già imminente, il processo di induzione emotiva pare già al culmine. I crescendo e i diminuendo di Eden sono tali da salire e ridiscendere gli abissi umani con tale vigore che pare non ci possa essere la forza per continuare. Eppure, sebbene forse già cotti dal sole, estenuati dall’emozione, provati dalla durezza del camminare senza ancora nessuna visione della meta, si deve guardare avanti, già con una speranza rifocillata. Molto deve ancora venire, molto deve ancora avvenire. Il desiderio deve ancora manifestarsi, l’esplosione si deve ancora innescare: Desire inizia piano, ma dopo due minuti e quaranta secondi, la detonazione avviene e nulla sarà più come prima. L’incendio dello spirito è totale, irreparabile. E si ripete, in perfetta simmetria, quando mancano esattamente due minuti e quaranta secondi alla fine del brano. Un vertiginoso giro di chitarre acidissimo, su un treno ritmico sussultorio e ipnotico, atrofizza ogni possibilità di liberarsi dalla morsa. La dannazione o la salvezza sono solo ad un passo. Testa o croce. Le due facce della stessa realtà. La pace giunge alla fine, sulle punta delle dita appoggiate sul pianoforte. E da lì proseguono, affiancate dalle spazzole percosse sulla batteria: questo l’attacco di Inheritance. Se Desire è fisica, Inheritance è pindaricamente mentale, prefigurazione di una sistesi ancora solo sognata. La voce di Hollis non ha regole, bellissima nel suo procedere asfittico, l’impeto è tale che in alcuni punti sembra mangiarsi le parole. Se in The Colour Of Spring (1986), già predefigurando il loro mondo sonoro a venire, i Talk Talk presentavano la loro I don’t believe in you, in Spirit Of Eden ha luogo l’atto di fede e a trovare posto c’é quella carezza sensuale di I believe in you. Non siamo nella sfera del caso. Ma neppure un vago e vano ripiegare su una verità approssimativa e consolatoria (rileggetevi il testo). In I believe in you, si rivela infine lo Spirito, forse solo perché il percorso è ormai avanzato e l’ora è tarda. E la fatica merita una ricompensa, una ricompensa vera e quindi magari agra. Un coro di pochi secondi nel finale ci fa capire che ormai è giunta la consapevolezza dell’Eden. Pochi secondi perché solo chi è attento merita questo ritorno. Solo chi non ha cercato scorciatorie. Finalmente si arriva nel cuore dell’Eden. Finalmente si arriva a Wealth, che nella sua avvolgente atmosfera sospesa, libera e purifica l’anima e il corpo.
Finalmente la pace. Una pace che però non è riposo, staticità: questa pace è altra cosa. Questa pace è allo stesso tempo incessante energia vitale e inesauribile quite. L’Eden non è un luogo, una dimora di beatitudine eterna, ma un viaggio di ritorno. Questo senso di ritorno, questa dichiarazione di appartenenza disvela il significato per continuare, in modo più pregno, l’umano cammino. E non ha importanza quanto esteso sia l’Eden secondo i metri di misura umani, così come non importa la durata di questo viaggio musicale e spirituale. Non importa se il vestito è logoro (come dice Muir: “di questi cenci e questi stracci veste la mia anima”). Quarantuno minuti o ventuno anni. O tutta la vita. Comunque sia, si ritorna.

Compio il viaggio di ritorno,
Per cercare quelli del mio sangue,
Vecchie fonti prosciugate i cui fiumi scorrono lontano
Tra te e me.
Ma qui, ma qui c’é acqua.
Limpida o torbida che sia.
[...]
Attraverso un infinito vagabondare
Affrettarsi, indugiare,
Vengo più vicino,
Con passo da sonnambulo
Per trovare il luogo segreto
Dov’é la mia casa.
[...]
[Il Viaggio di Ritorno da “Il Labirinto”, 1949, Edwin Muir]

Parte III: La compagnia dello Spirito

"Before you play two notes learn how to play one note - and don't play one note unless you've got a reason to play it". Questo il principio musicale che ha ispirato Mark Hollis. Tuttavia, sebbene il senso di misura sia evidente, le composizioni sono lunghe e strumentalmente articolate: il cantante Mark Hollis è impegnato, al piano, all’organo e alla chitarra, il produttore-compositore Tim Friese-Greene a dargli man forte ai medesimi strumenti e all’harmonium, Mark Feltman all’armonica, Lee Harris alla batteria e Paul Webb al basso. Oltre a questi strumenti si aggiungono: chitarra a 12 corde, violino, oboe, fagotto, clarinetto, tromba (a cura di Henry Lowther), dobro e, addirittura, un coro. E naturalmente l’arte grafica del fido James Marsh, anche lui ai suoi massimi livelli espressivi. Spirit Of Eden annovera una lunga lista di musicisti (se ne contano diciassette), nell’ingaggiare i quali verrà disperso l’ampio budget messo a disposizione dalla speranzosa EMI, le cui aspettative risiedevano in un nuovo grande successo commerciale. Qualcosa facile da prevedere ai tempi e altrettanto facile da bissare. Una botte di ferro, debbono aver pensato i manager della EMI. Non aggiungiamo ulteriori commenti. Ma ci congediamo da questo pensiero ogni volta con un sorriso sulle labbra nell’immaginare le loro belle facce, il giorno in cui il master del disco è stato consegnato.

Parte IV: L’eredità dell’Eden

Chissà cosa passava per la testa di Hollis e Friese-Greene quando hanno definitivamente stabilito le linee guida del dopo The Colour Of Spring ancora forte del successo di Life’s what you make it. Già: la vita è ciò che di essa ne fai. Con il senno di poi è evidente che il mutamento è stato graduale verso il decisivo limbo poi inauguarato come sponda finale. Però  sarebbe bello sapere cosa li ha spinti a porsi completamente al di fuori del loro tempo, consegnando alla Storia della Musica alcune delle pagine meno ingiallite che si siano mai scritte e lette. Fuori dal tempo, dunque esenti da ogni possibilità che la loro materia venga corrotta. Il loro cuore deve essersi riscaldato al suono di Miles Davis e delle ballad di John Coltrane. Sicuramente la loro mente si era già aperta alle intuizioni “spaziali” di Brian Eno (Spirit Of Eden ce lo ricorda in più frangenti). Certo, altri nobili artefici di questa congiunzione fra eleganza pop, sudore blues e astrazione jazz c’erano ovviamente già stati: Tim Buckley, Nick Drake, Van Morrison, David Sylvian. Ma forse è stato proprio il riportar indietro le lancette dell’orologio, o meglio a far risalire la sabbia nella clessidra, che ha consentito a Hollis e a Friese-Greene di non cadere troppo nei solchi da altri tracciati. Forse ne sono stati inconsapevoli prosecutori. In quegli anni altri stavano per scavare in territori attigui: gli Bark Psychosis di Hex (1994) e gli Slowdive di Pygmalion (1995). Due dischi che rifulgono nella luce dell’Eden e nel soffio dello Spirito.
Altri ancora seguiranno quelle coordinate, reciteranno quel lessico, riportando in vita quell’ansia di ricerca di cui, a tutti gli effetti, i Talk Talk furono i pionieri: Mazzy Star, Tram, Elbow, Movietone, Spain, Sparklehorse, Clogs, Shearwater (nel singolo del brano Rooks è inclusa una cover di The Rainbow, spesso eseguita anche in contesto live), ma anche Sigur Ros e Mogwai (più che altro per le rarefazioni atmosferiche che non per le astrazioni melodiche). Gli insetti del paradiso terrestre hanno ben svolto il loro compito, avviando questo sapiente processo di impollinazione, ma avendo cura di donare il seme in parti e in misure differenti. Ognuno di questi gruppi è infatti riuscito a trovare una personale strategia per lambire nuovamente i lotti segreti che riconducono all’Eden. Che riconducono a Spirit Of Eden. Forse però, fra i vari depositari del retaggio umorale e musicale dei Talk Talk, sono i no-man dei due album Returning Jesus (2001) e Together We’re Stranger (2003) ad aver dimostrato maggiore ricettività e gratitudine. Amare profondamente Spirit Of Eden e Laughing Stock, necessita di confrontarsi con la concreta evanescenza sonora propria dei no-man.
Ma Spirit Of Eden, nonostante in tanti l’abbiano spergiurato, non è né il precursore né dello slow-core, né del post-rock. Sarebbe riduttivo e pertanto un tantino offensivo. Il disco ha ben altri meriti. Ha ben più alti meriti.

Parte V: Quel che resta dell’Eden

Sappiamo che Mark Hollis è stato autore di un unico, imperdibile, omonimo album solista nel 1998, che merita di essere sviscerato in un racconto a parte. Sappiamo che Paul Webb e Lee Harris, sotto il nome di O’ Rang hanno generato una miscela sperimentale, frutto della lezione dei Can, e sospesa tra trip-rock e divagazioni world (Herd Of Instinct del 1995 é superiore a Fields & Waves dell’anno successivo). Lee Harris, chiuderà il cerchio, suonando la batteria sull’album del ritorno degli Bark Psychosis (Codename: Dustsucker del 2004). Paul Webb, utilizzando l’alias Rustin’ Man s unirà a Beth Gibbons (esule dei Portishead), per uno dei più begli album del primo decennio del nuovo millennio, Out Of Season del 2002. Tim Friese-Greene invece partorirà, con il moniker Heligoland, due lavori, nei quali la componente alt-rock è maggiormente messa in evidenza: il primo omonimo è del 2000, mentre l’ultimo, Pitcher, Flask & Foxy Moxie è del 2006. In ognuno di questi lavori, gli ex-Talk Talk riverseranno un po’ di qell’eredità sonora e spirituale che li ha contraddistinti. Ognuno di loro, ovunque sarà, si porterà dietro, come una casa mobile, quel po’ di Eden che gli basta per ricordare ed essere felici.



Tu eri qualcuno in cui credere,
Un posto di speranza in un mondo mutevole
[...]
Essendo a lutto per la perdita del paradiso,
Lacrimando per la perdita del paradiso
Giù, vicino al muro del pianto.
Tu eri qualcuno in cui credere,
Donavi vita dove c’era desiderio di conoscere,
Ma è questa la natura dei viventi:
Contare soli gli anni rimasti nel proprio cuore.
[Weathered Wall da “Brilliant Trees”, 1984, David Sylvian]

[...]
E camminano come al suono di una musica sotterranea
Di un’aria che sempre s’annoda e si snoda
Che muove i loro passi sebbene caminino in silenzio,
Perché la musica ha sepolto lì sé stessa,
E tutte le sue lingue inondano in silenzio
Quel moto che solo dovrebbe esser melodia.
[...]
Questo è il luogo della pace, pago di sé.
Tutti l’abbiamo visto e mentre lo guardiamo
Noi siamo veramente lì, e anche ora nel ricordo,
Qui su questa strada, seguendo una stella cadente.
[Il Viaggio di Ritorno da “Il Labirinto”, 1949, Edwin Muir]

Stefano Fasti

Note:
Traduzioni di Edwin Muir tratte da: “Edwin Muir: Un Piede nell’Eden e altre poesie” di Marina Pellizzer (introduzione di Carlo Izzo), Giulio Einaudi Editore, 1974.

La recensione è stata originariamente pubblicata qui: http://www.storiadellamusica.it/Talk_Talk_-_Spirit_Of_Eden_(EMI,_1988).p0-r3064