lunedì 26 settembre 2011

ANATHEMA "FALLING DEEPER" (Kscope, 2011)

Gli Anathema devono averci preso gusto. Ad autoanalizzarsi, a rileggersi, a revisionare se stessi e il proprio passato. E così nell’attesa si un nuovo album, previsto per il prossimo anno (ma teniamo le dita incrociate, vista la lunga gravidanza che ha portato all’ultimo “We’re Here Because We’re Here”), e sulla scia di quanto fatto con “Hindsight”(2008), la band dei fratelli Cavanagh ritorna ancora una volta sui propri passi più antichi, quando l’attuale vena post-progressiva con elementi di post-rock e psichedelia atmosferica era ancora distante, e un metal più epico e di stampo doom scandiva le composizioni. La reintepretazione è attuata su tempi più lenti, mentre il pathos rimane intatto, sia per la coerenza compositiva del materiale prescelto, sia per le orchestrazioni chiamate in gioco per sostituirsi alle chitarre, laddove oggi non vogliono più arrivare.

Tuttavia l’operazione non conduce mai a risultati pomposi e scontati, segno questo della bontà della scrittura originaria dei pezzi (Everwake, J’ai Fait Une Promesse e la stessa Alone, non è che poi fossero così diverse al loro esordio, tranne che per il contributo dell’orchestra). Semmai la componente eterea è amplificata attraverso un emozionante uso delle chitarre, che pur destituendosi dal ruolo di regali protagoniste, giungono a ricamare accordi di grande suggestione e a produrre, quando elettrificate, feedback sonori di ampia portata (largo è l’uso dell’e-bow). La presenza di Anneke Van Giesbergen (indimenticata singer dei migliori The Gathering) nel classico Everwake, fa tornare alla mente il bellissimo esperimento del tour acustico degli olandesi, concretizzato nello stupendo live “Sleepy Buildings” del 1994. Non è secondaria la prestazione vocale della brava Lee Douglas (specialmente in Alone), anche se le sue architetture sono molto più sfuggenti e dunque le sue doti potrebbero apparire meno evidenti. L’intensità mantiene un livello di espressività molto dimesso e poco incline all’impatto. Anzi la sfida è ancora una volta questa: proporre un’altra dimostrazione pratica dell’impatto. Farlo nello stesso modo di quindici anni fa non avrebbe avuto senso e di certo non avrebbe dato valore aggiunto. Non credo che gli Anathema vogliano tuttavia darci una prova di maturità conquistata con validità retroattiva: davvero non ne hanno bisogno e non ritengo vogliano minimamente affrancarsi dal loro passato. Anche perché determinati brani dal vivo vengono eseguiti ancora nell’arrangiamento primigenio (almeno così è avvenuto nel tour di “Hindsight”). E alla fine di questo “Falling Deeper”, l’unico momento nel quale ci si ritrae dal plauso è proprio nel potentisimo arrangiamento di cui viene dotata l’immane Sunset Of Age (da “The Silent Enigma” del 1995): mi sembra che il meglio di sé questo lavoro lo dia in quelle riletture diafane e minimali di Crestfallen, Everwake o They Die (ossia proprio quelli dell’EP “The Crestfallen” del 1992 con il quale gli Anathema hanno esordito). In taluni casi le modalità prescelte per le nuove fattezze hanno portato a più drastiche modifiche: Kingdom, Sleep In Sanity e We The Gods non solo sono geneticamente “altre” rispetto a ciò che erano (via ogni timbrica growl), ma la veste minima si è concretizzata anche in un significativo restringimento della durata, in conseguenza della quale tali tracce vengono (se)veramente ridotte ad una dimensione di nuda essenzialità.

E’ ovvio che qualsiasi giudizio sugli Anathema non potrà basarsi su un album del genere, ma richiederà invece un personale confronto tanto quanto con quell’innovativo capolavoro di “Alternative 4” del 1998 (e del quale per l’ultima volta è stato protagonista Duncan Patterson), quanto con “A Natural Disaster” del 2003. Ma anche la conoscenza del primo quadro sonoro degli Anathema, quello di dischi del calibro di “Serenades” (1993), “The Silent Enigma” ed “Eternity” (1996), quando tutte le caratteristiche qui epurate erano motivo di gioia per migliaia di fan in tutto il mondo, non può e non deve essere ricondotta ad una esperienza minore o più adolescenziale.  
Stefano Fasti

Links:
La recensione è stata originariamente pubblicata su Storia della Musica: http://www.storiadellamusica.it/Anathema_-_Falling_Deeper_(KScope,_2011).p0-r4243

mercoledì 21 settembre 2011

STEVEN WILSON "GRACE FOR DROWNING" (KScope, 2011)




Cosa accade se uno dei più talentuosi musicisti tra quelli emersi ad inizio dei 90s, osannato dapprima dalle schiere di fan orfane dei Pink Floyd e poi (negli Anni Zero), una volta screditata la vena psichedelica ed il suo gruppo entrato nel roster di una delle label più altisonanti in campo metal (e divenuto quindi superstar mondiale, grazie anche alla sua attività di produttore), scopre in mezzo al deserto una antica epigrafe che consente di riattivare un portale posizionato su una frattura dimensionale che permette di tornare in epoche passate?

PHASE ONE. La-lai-la-la. Mr. Wilson si scalda la voce con qualcosa a metà strada fra un esercizio di lallazione e un canto sillabico: "Grace For Drowning" inizia con la languida lucentezza della title-track e il sapore di una tarda estate dei Sixties, con la radio che trasmette i Beach Boys e con il piano (sui tasti le dita di Jordan Rudess dei Dream Theater) a girovagare per qualche spazio siderale, forse a causa di una qualche interferenza cosmica sulla cui frequenza viaggiano, surfando, i Muse. Fra le spiagge della California e Sirio. Ma è con Sectarian che entra in funzione la caleidoscopica macchina del tempo che stavolta ha ideato Steven Wilson: in questo imponente strumentale il congegno per viaggiatori spazio-temporali viene settato per rimanere in Inghilterra ma nel periodo in cui i King Crimson avevano già abbandonato tanto le sponde romantiche dei primi due album (“In The Court Of The Crimson King” del 1969 e “In The Wake Of Poseidon” del 1970), quanto i lidi sperimentali in odor di jazz del terzo e quarto disco (“LIzard” del 1971 e “Islands” del 1972), che comunque riemergeranno prepotentemente nel corso di questo "Grace For Drowning", dando forma e sostanza a quelle asperità chitarristiche e a quelle poliritmie che sarebbero divenute la loro nuova nota caratteriale (qui si stabilisce un nesso molto stretto con quel portentoso pezzo che risponde al nome di Fracture su "Starless and Bible Black" del 1974). In Sectarian il gioco non finisce qui, essendo ben evidenti passaggi che rimandano alle intemperanze dei National Health, alle anarchie strutturali degli Henry Cow e, ancora, ai Crimson del 1994 (quelli di "Thrak" e del doppio trio per intenderci), con i loro contrappunti supersonici (vedi la title-track Thrak, richiamata a gran voce). Tutt'attorno un poderoso muro sonoro a base di hammond e mellotron, nonché lo sputare fuori l'anima del sax soprano di quell'incredibile musicista che è Theo Travis che qui incrocia le armi con il clarinetto di Ben Castle (nella Steve Hackett Band). Uno Steven Wilson così cocciutamente retrò non lo si era conosciuto neppure ai tempi di "The Sky Moves Sideways" (1995) quando la musa dei Pink Floyd era quella più manifesta. Qui è la band di Fripp ad essere focus e fuoco ispirativo: i King Crimson sono da sempre presenti nelle circonvoluzioni cerebrali del giovane Wilson (ricordate Dislocated Day?), ma ora nel Wilson della maturità sembra definitivamente caduto quel velo di ipocrisia che, nello scorso decennio, lo ha portato a camuffare le proprie influenze, pianificando brani e dischi talvolta in antitesi alle sue intime e più vere inclinazioni. Wilson ha dichiarato di recente che proprio durante il lavoro di remastering della discografia "in cremisi" (ed in particolare dell’ambiziosissimo "Lizard" del 1970), questo sentiero è parso quello necessario da percorrere. Posso confermare, da quasi coetaneo, che effettivamente superati i 40 la spocchiosa voglia di dichiararsi alternativi ad ogni costo passa quasi del tutto in secondo piano, preferendo rifar pace con le passioni adolescenziali. Entrare nella testa e nelle logiche di Fripp, deve aver innescato nel quarantaduenne musicista inglese quel processo di insana identificazione che colpisce certi giornalisti di cronaca nera intenti a descrivere le menti criminali di quei serial-killer che seguono da una vita. Deform To Form a Star è una delle cose più belle e sincere mai uscite dalla mente e dal cuore di Steven Wilson: i brividi mi scorrono lungo la schiena ogni volta che, in questi giorni di agosto morente, è entrata nelle mie orecchie e quindi nel cervello e giù nell'anima, come un pozione dolce e vivificante. Pensando al suo repertorio, cercando di individuare dei precedenti musicalmente accostabili, mi verrebbe di indicare quelli che reputo fra i pezzi più intensi in assoluto dell'esperienza Porcupine Tree: Stop Swimming, Buying New Soul, Collapse The Light Into Earth. Una ballata "spaziale" di ampissimo respiro, introdotta da un piano struggente e sognante e sottolineata da un elegante basso (Tony Levin), che incorpora un liquido assolo di chitarra del padrone di casa (tra i suoi più belli). E poi, nel finale, una tempesta acustica che sembra contemplare gli anfratti più seducenti di “Lightbulb Sun” (2000). Davvero non c'è alcun margine di rimpianto nei confronti di quanto Wilson ha scritto in passato, essendo così luminoso il suo oggi. No Part Of Me è un'altra traccia importante del lavoro, che è in grado di dimostrare, attraverso la dedizione all’esaltazione di ogni singolo suono, quanto Steven Wilson sia cresciuto professionalmente: una base percussiva elettronica concitata ma delicatissima (sembra uscita da “100th Window” dei Massive Attack, mentre invece è interamente ad opera di quel genio creativo di Pat Mastellotto, drummer in carica con i Crimson dalla reincarnazione degli Anni '90 fino all'ultimo album in studio del 2003), che apre la porta ad una sezione d'archi funzionale e mai fuori luogo (caratteristica che manterranno tutti gli interventi della London Session Orchestra nel corso di "Grace For Drowning"), mentre Nick Beggs e Trey Gunn (impegnato anche alla Warr Guitar) ricamano al basso punteggiature di grande suggestione, con un rarefatto assolo di Theo Travis al clarinetto, reminiscente Jan Garbarek, che introduce ad una seconda sezione in cui il pathos generale si accosta a quanto invocato dai Tool e nella quale prorompe una pindarica batteria e una stralunata chitarra (che pare uscita da No Twilight Within The Courts Of The Sun dal debut album solista del 2008, "Insurgentes"). Da segnalare la presenza dell'ottimo Markus Reuter, leader dei Centrozoon e fra i più validi degli ex-allievi di Mastro Fripp, alla sua "touch guitar". Con Postcard si cambia registro: qui l'autore pare voler sintetizzare e palesare la sua vena più marcatamente pop, realizzando uno strano ma riuscito ibrido fra i Coldplay di “Viva La Vida” (2008) e i suoi Blackfield: per quanto "leggera" e po' fuori contesto rispetto agli stilemi di "Grace For Drowning", Postcard rimane gradevole, grazie all’incantevole arrangiamento degli archi, incupendosi appena un po' negli ultimi trenta secondi. Significativo anche il lavoro vocale realizzato con il Synergy Choir protagonista del preludio a quel “pezzo da 90” dell'album, Raider II, di cui parleremo più avanti e nel quale ritornerà prepotentemente il coro, in modalità tali da esternare ipotesi meritevoli di un parallelismo con i Magma. Il primo dei due Cd si chiude con i nove minuti di Remainder The Black Dog: un reiterato fraseggio di piano le da il via e riporta ancora prepotentemente indietro nel tempo, riconducendo in una qualche piega dimensionale nella quale si sovrappongono i National Health, i King Crimson di “Lizard” (Happy Family, in special modo), i Van Der Graaf Generator, gli Henry Cow e addirittura i Dream Theater "evoluti" apprezzati in brani come New Millennium o Scarred. Verrete investiti da mille schegge sonore impazzite, che alla velocità della luce vertiginosamente ruotano in un turbinio che convoglia sax, hammond, allucinanti assalti di batteria (Nic France), distorti assoli di chitarra (ospite d'onore, Steve Hackett), progressive "old school", avant-jazz, prog-metal, rock in opposition, che permette di tornare, stravolti, a riveder le stelle solo negli ultimi minuti.

PHASE TWO. Il tempo di cambiare dischetto, e si subito è avvolti dalle note sognanti e malinconiche dello strumentale acustico Belle de Jour (si riassaporano certi acquerelli solisti dell'ex-chitarrista dei Genesis), in grado di lenire un po' le ferite inferte dai tanti sussulti. La paranoia, tematica ricorrente nelle liriche di Wilson, trova naturale prosecuzione in Index, adagiata su una angosciante ritmica che evoca i fantasmi dei Nine Inch Nails (di cui ancora una volta è artefice Pat Mastellotto), in un testo che parla di un collezionista che riesce a sentirsi vivo solo fra oggetti inanimati, indipendentemente dal fatto che questi siano rifiuti raccolti dalla spazzatura o macabri feticci umani. Abandoner sul precedente "Insurgentes" portava già in sé questa tetra ma feconda vena impressionista. Gli archi ancora una volta (London Session Orchestra) hanno un ruolo decisivo in una atmosfera veramente malata. Anche la successiva Track One prosegue su sentieri mentali e musicali decisamente disturbati (che fanno riaffiorare Salvaging su "Insurgentes"), che sfoga in una eruzione maligna, anche se gli arpeggi di acustica nel finale danno l'impressione che il buio sia passato. E invece no, perché ormai si giunge all'epicentro di questo "Grace For Drowning": l'immane precipizio di Raider II, ovvero ventitré minuti di musica totale e totalizzante (altrettanto duravano The Plague Of Lighthouse Keepers dei VDGG e Lizard dei King Crimson, composizione con la quale qui ogni riferimento è tutt’altro che casuale). Andrebbe ascoltata in completa oscurità, ma gambe e cuori tremeranno, per questo suo indurre a librarsi sul baratro. L'incipit stesso è degno di un introdursi in un antro oscuro, perdendo la speranza di incontrare qualcuno capace di indicare la diretta via ormai smarrita. Ad un certo punto alcune familiari note riecheggianti La Carrozza di Hans (PFM) o The Court Of The Crimson King, sembreranno venirvi a salvarvi la pelle, sulle ali di un flauto. Ma molta strada bisognerà ancora attraversare prima di percepire la rassicurante rugiada del mattino e davanti dovranno ripassarvi tutte le entità del "tempo antico" che in varia misura abbiamo, fugacemente o meno, già incontrato nel percorso: Henry Cow, Soft Machine, Van Der Graaf Generator, National Health, Magma e ovviamente i King Crimson (in tutte le loro essenze dal '69 al '74) si scambieranno rapidamente la scena, senza darvi neppure il tempo di riconoscerli prima di mutare ancora. Spesso a condurre le trasformazioni sono dei serratissimi frangenti in cui tastiere e chitarre si inseguono senza tregua (dal retrogusto prog-metal), che sembrano pedissequamente usare la forma adottata dai KC in un brano possente come Level Five su “The Power To Believe” (2003). Eppure tutto inspiegabilmente funziona: il coro, gli inserti di clarinetto, flauto e sax (sempre ad opera di Theo Travis), la strumentazione realmente "vintage", l'ispirato assolo di pianoforte di Rudess, la voglia di elaborare la stesura di un manifesto sonoro, non saprei dirlo cosa renda tutta questa massa oscura credibile e coerente con questo scrutarsi alle spalle, con uno sguardo rivolto a quarant'anni indietro nel tempo, alla ricerca delle (proprie) radici. Davvero non saprei dirlo, visto che anch'io ho condiviso percorsi musicali comuni a quelli di Wilson per poi abbandonarli in cerca di rinnovamento. Non posso rispondere: conviene lasciarsi telluricamente cullare dal finale di questa infinita Raider II, che omaggia, tirandola per le lunghe, quello dell'immortale Red (il gruppo non lo cito più). Il secondo supporto e dunque l'intero "Grace For Drowning" ci saluta in punta di piano, con Like Dust I've Cleared From My Eye, una solare ballata con una sensibilità degna degli I Am Kloot, che aumenta di consistenza lentamente (ritroviamo Tony Levin) e che pare ricongiungersi all'abbacinante luccichio della title-track. Il finale sembra troppo tenue (non debole), specialmente perché non ha abbastanza "materia adiposa" per reggere il peso schiacciante del magnum opus che la precede. Il disco per forza di cose non è esente da lungaggini e anzi, contenendosi un po', avrebbe potuto più agevolmente entrare in un unico dischetto della durata di 70 minuti, filtrando certe divagazioni evitabili (vedi la stessa Raider II). Un merito particolare va a Dave Stewart, che ha curato gli arrangiamenti degli archi e dell'ensemble vocale Synergy, elaborando partiture efficaci che non risultano mai ridondanti. Se "Insurgentes" aveva aperto la serratura, dischiudendo le porte del mondo segreto del leader di no-man e Porcupine Tree, costituendo una tappa cruciale del suo discorso artistico, "Grace For Drowning" è lo stargate spalancato su un universo alternativo, che si chiuderà alle spalle di chiunque lo imboccherà.

CODA. La dissertazione su un album così poliedrico e denso meriterebbe analisi da angolazioni differenti, anche se mi rendo ben conto per alcuni (o molti, chissà...), l'aspetto di esaltazione della fase più creativa dell'epopea Progressive (1969-1974), possa costituire la più imperdonabile delle colpe. In tale valutazione, va tenuto conto che Wilson, in questo 2011, portando a casa un risultato significativo in termini di sintesi fra passato e presente, incarna il ruolo dell'uomo giusto nel posto giusto: quest'anno, oltre ad aver concluso il mix in 5.1 di una ulteriore tranche di album storici della formazione di Fripp (“Starless and Bible Black” e “Discipline”), è stato in cabina di regia per le reissue di altre due opere fondamentali del Prog dei Seventies: "In The Land Of Grey And Pink" dei Caravan e "Acqualung" dei Jethro Tull, entrambi del 1971. Perciò nonostante molti interrogativi rimarranno aperti (sentenzierà il tempo, come sempre, il miglior critico e giudice musicale), sarà difficile non tentare di darsi una risposta all'unica questione plausibile: cosa sarebbe accaduto se un personaggio come Steven Wilson fosse nato quindici anni prima?

Stefano Fasti



La recensione è stata originariamente pubblicata su Storia della Musica: http://www.storiadellamusica.it/Steven_Wilson_-_Grace_For_Drowning_(KScope_,_2011).p0-r4242


Official Artist Site: http://www.swhq.co.uk/

Official Album Site: http://www.gracefordrowning.com/

Italian Fan Site: http://www.porcupinetree.it/

lunedì 5 settembre 2011

PINEDA "S/T" (DeAmbula Records, 2011)






Prendono di sorpresa questi Pineda. Il solo conoscere i nomi dei musicisti coinvolti in questa formazione (Marco Marzo Maracas, chitarrista e ideatore del progetto, Floriano Bocchino, alle tastiere e al piano Rhodes e Umberto Giardini aka Moltheni alla batteria) non aiuta a indovinare la direzione in cui soffia il vento. Ecco, lasciate ogni aspettativa di post-rock o voi che entrate. Nonostante il forte legame che lega Umberto Giardini alla “scena di Chicago” e la stima, mai celata, che lo unisce a John McEntire dei Tortoise, stavolta la strada intrapresa va ad impregnarsi di quel “liquido seminale” che i tardi anni Sessanta e i primissimi Seventies hanno prodotto in ambito Progressive. Forse sarebbe più lecito parlare della Scuola di Canterbury (leggi la filiazione più creativa e meno ridondante del Prog di quegli anni). E’ la lezione proveniente da quella provincia del Kent che in questo disco sembra vivere di nuova linfa e di nuove idee: e così sonorità chiaramente riconducibili a Soft Machine, Gilgamesh, Hatfield & The North, National Health (al cui retaggio si riannoda Marco Marzo) stringono alleanza con la fazione più “matematica” e più affine al jazz sperimentale del post-rock statunitense (Tortoise, The For Carnation, Don Caballero, Windsor For The Derby). In realtà questo gemellaggio sonico era già tutto nel DNA di queste band dei Nineties: vedere dal vivo i Tortoise (momento in cui la loro esperienza si fa ben più esaltante e “grassa” rispetto ai perfetti, studiatissimi lavori in studio) spinge naturalmente al ricondursi a ciò che i Hatfield & The North avevano fatto vent’anni prima. Nei Pineda non manca una matrice psichedelica in grado di innervare l’intero lavoro e particolarmente evidente nelle chitarre.
E’ strano pensare come il post-rock, figlio di quella istanza post-punk di decapitazione dei cliché del rock, chiuda il cerchio facendo pace con alcuni tra i più geniali dei propri “padri putativi”, che pure dopo il ‘78 sembravo meritevoli solo di una epurazione culturale. Quando invece si spegne la verve la rivoluzionaria, si compie quell’autocritica necessaria per capire che non tutto ciò che è nuovo è davvero innovativo. E allora, a chi passa questa maturazione evolutiva si dischiude la grande possibilità di (ri)scoperta del proprio passato, delle avanguardie che furono e che necessitavano di essere approfondite prima di essere mandate al patibolo solo con l’ignorante accusa di essere “vecchie”. Ecco da una persona attenta come Umberto Giardini non poteva che esserci questa voglia di rimessa in discussione della propria identità, senza rinnegare nulla, ma ridando rilievo a ciò che davvero contava e conta. E ripartire da lì.
L’album è splendido ed è una gran gioia sapere che sia nato in Italia (in cui pure c’è stata una tradizione progressive forse non così direttamente riconducibile a ciò che accadde a Canterbury, ma qualitativamente altissima… andatevi a ripescare le improvvisazioni live della PFM nei ’70): da molto tempo non trovavo questa profonda attenzione a quella musica strumentale che scaturiva attraverso intense jam e non per il tramite di uno studio a tavolino. Mi verrebbe di chiamarlo rispetto, se non fosse per il senso di reverenziale timore a cui questa parola tende ad indurre: stavolta, paradossalmente, proprio a partire da un tale “rispetto” si genera una struttura sonora non così celebrativa o pedissequa nei confronti delle formazioni citate. Piuttosto viene compiuto questo necessario lavoro di rivisitazione senza cercare di trasporre suoni e idee semplicemente intercettandole e filtrandole attraverso l’elettronica. Qui si suona e si suona veracemente!
Dovessi parlare dell’album in dettaglio, non tralascerei alcuna traccia: vi basti sapere che una traccia così cerebralmente emotiva come Touch Me, in grado di fondere perfettamente le diverse anime dei Pineda, non la sentivo da parecchio tempo. Un disco, e un gruppo, davvero “Avant(i)-retrò”.

Lavel Site "DeAmbula records":
http://www.deambularecords.com/




Recensione originariamente apparsa su "Storia della Musica": http://www.storiadellamusica.it/Pineda_-_Pineda_(DeAmbula_Records,_2011).p0-r4210

giovedì 1 settembre 2011

NOSOUND "THE NORTHERN RELIGION OF THINGS" (KScope, 2011)

I Nosound in versione "navigazione solitaria", un live album che è anche qualcosa di altro: non c'é pubblico, ma la musica è viva ed induce ad intime riflessioni...

I Nosound all'ennesima potenza. Non tragga errate conclusioni il lettore: contrariamente a quanto fanno negli ultimi anni molti gruppi che sentono la necessità di proporre una nuova lettura del proprio materiale passato, rivolgendosi  ad orchestre o a sezioni d’orchestra e potenziando l'aspetto sinfonico (anche laddove non era in origine presente), i Nosound ricercano la propria "forza", in un processo di riduzione degli elementi di dispersione. Si va al nocciolo, o per dirla alla romana (o all'inglese, se vi piace di più, tanto il significato è lo stesso…), si va al "core". Perché la potenza vera sta nell'esaltazione delle piccole cose. E così all'indomani della performance "in solitaria" che lo scorso anno Giancarlo Erra (leader e compositore della formazione) ha tenuto in un piccolo club londinese, è scaturita l'idea di fotografare quel particolare momento, replicando in studio la performance, suonando dal vivo, con il solo supporto offerto dai campionamenti e, infine, registrandone l’esito senza l’uso di sovraincisioni. Perché, se negli anni '90 il concetto di "unplugged" ha sotto diversi punti di vista snaturato l'ispirazione primigenia di certe canzoni (non sempre restituendole a versioni dall'effetto "nude" così convincente), a quasi vent'anni di distanza si può far pace con la spina attaccata, con l’elettrificazione e con i laptop accesi, se la musica che ne scaturisce mantiene una sua naturale veracità.  In questo senso, Erra, “in solitudine” su un palco o in uno studio, alla ricerca dell'essenza di se stesso, rimane in compagnia delle sue chitarre e delle sue "macchine", a dare colore e calore ai brani estratti dai suoi tre album in studio. Che poi, per Giancarlo Erra, è davvero un tornare al momento creativo della composizione. Ecco cos’è questo "The Northern Religion of Things": la chiusura di un cerchio. Un riannodarsi di fili, un ritorno, fatto nella stessa modalità con cui il viaggio aveva avuto inizio: da solo. Nel 2005, come evento promozionale per la pubblicazione del debut album "Sol29" era stato organizzato un piccolo concerto in una biblioteca del centro di Roma, in cui i Nosound si mostrarono già in veste ridotta. Serbo ancora il ricordo dell'esecuzione della title-track. Ora in questo "live in studio", riaffiora quella stessa emozione, che nasce però da un singolo respiro, dal pulsare di un solo cuore. E, paradossalmente, proprio in virtù di ciò, l’esecuzione si sprigiona con una vitalità per nulla depotenziata o meno concreta. The Broken Parts (uno dei più bei pezzi scritti dalla penna di Erra), Fading Silently, Tender Claim, Hope For The Future, trovano credibili versioni in una dimensione che, come detto, ne rammenta la loro genesi. Certo una Kites (cavallo di battaglia nei concerti), senza la batteria di Gigi Zito, stenta un po’ a decollare, ma anche qui non vengono stravolti i tratti che la rendono una delle composizioni più amate dai fan dei Nosound (vedi il liquido assolo di synth, ad esempio). The Misplay, poi mantiene praticamente la stessa struttura che aveva su “Lightdark” (2008), la stessa intima bellezza, che pare rendere vicini i mondi sonori del David Sylvian più minimale. Stesso discorso proprio per Lightdark che, anche nel nuovo vestito, celebra le stesse atmosfere e le stesse suggestioni che evocava sull’album a cui dava il nome. 
Non c’è più nulla qui, in queste reinterpretazioni, che sospinga ancora la tesi di una ispirazione comune con lo Steven Wilson che fu (no-man o Porcupine Tree di “The Sky Moves Sideways”) o con i lirismi Gilmouriani, essendo radicalmente cambiato il focus, il contesto e la prospettiva gettata sul senso di fedeltà alle cose minime che danno vita alle canzoni, senza il bisogno di ricorrere necessariamente ai massimi sistemi. In particolare il fischiettio di Giancarlo, in The Broken Parts, che si sostituisce al ben noto fraseggio di sintetizzatore, diviene il simbolo dell'intera operazione compiuta in questo strano live album, per nulla pubblicizzato in quanto tale, ma anzi percepito quasi come un ulteriore capitolo della discografia dei Nosound. Se esiste una via definibile come “cantautorato ambient”, questa deve essere da queste parti.
Sarebbe stato a mio avviso importante inserire almeno un inedito, nato direttamente in chiave “stripped”: ciò avrebbe spostato altrove l’attenzione, evitando per qualche minuto, il confronto fra il passato e il presente, dando agli appassionati dei Nosound anche un qualcosa in più, nella lunga attesa che li sta separando da un effettivo nuovo album.
Il titolo, tratto dall’incipit de “Le Correzioni”, capolavoro del 2002 di Jonhatan Franzen, richiama questo spirito di ricerca laica dell’universo tangibile, compiuta con una disposizione quasi religiosa e tesa a scorgere il volto segreto, pulviscolare della realtà. Poteva esserci una espressione più calzante per descrivere lo stato di allerta e di riflessione a cui questa musica “molecolare” esorta?

Stefano Fasti

La recensione è stata originariamente pubblicata qui: 

Links:
Official site: http://www.nosound.net/

venerdì 12 agosto 2011

TALK TALK "SPIRIT OF EDEN" (1988)

Inauguro questo blog con la pubblicazione della recensione uno di quegli album la cui bellezza prescinde ogni confine e ogni definizione. Per me è uno di quei dischi che fa parte della mia vita. Buona lettura...




Con un piede ancora nell’Eden
Io sto fermo

E guardo di là, verso l’altra terra.
La grande età del mondo sta decadendo.
Come sono strani i campi che abbiamo seminato
Lungamente a messi d’amore e d’odio.
[...]
Male e bene stanno insieme uniti
Nei campi della carità e del peccato,
Dove noi ammucchieremo il nostro raccolto.
[Un Piede nel’Eden da “Un Piede nell’Eden”, 1956, Edwin Muir]

Il poeta scozzese, nato nel 1887 a Deerness, nelle Orcadi Minori (isole dell’Isola), che più dei suoi contemporanei ha rappresentato l’archetipo del topografo dell’Eden, sarà il vate al mio fianco in questa revisione di mappe geografiche alla ricerca di un luogo dimenticato. La sua poetica, reincarnata nella voce e nei testi di Mark David Hollis, mi darà il supporto emotivo alla ri-scoperta dell’Eden.

Parte I: Topografia dell’Eden

Un lento inoltrarsi per lande desertiche, attraverso lo snodarsi di strade polverose e battute dal vento, in una qualche remota provincia rurale degli Stati Uniti. Dispersa in qualche arida steppa in Oklahoma, Utah o Texas occidentale. O in una qualche desolata distesa del Great Basin. Lontano dal grande caos delle megalopoli. Vecchi binari di ferrovie lungo i quali camminare: borghi abbandonati che avrebbero potuto essere perfette location per qualche pellicola western d’annata. Qui non c’é nulla di pittoresco o di poeticamente selvaggio. L’opprimente primordialità del territorio fa eco alla primigenia necessità di sopravvivenza. Strano pensare che l’Eden sia nei paraggi, eppure è così. Deve essere così. Dopo un lungo metaforico viaggio transoceanico dalle fredde terre d’Albione, lo Spirito soffia verso Ovest. Il bagaglio deve essere leggero come la luce che qui acceca e distorce. Via le cose che non servono e ciò che resta, ancorché essere scarno e asciutto, è quanto di più denso sia possibile immaginare. Il passo deciso verso un nulla che è tutto, dentro un vuoto che è pieno, verso nessuna destinazione. Fine di tutto, inizio di ogni cosa.

[...]
Conscio di dove ho sbagliato
Smarrito, corrotto
Questa è la canzone che canta il prigioniero
Il mio tempo è trascorso.

Risuona il canto della vittima
Il processo è passato
Il processo prosegue
[The Rainbow]

Guardare l’arcobaleno senza la salda speranza per il ritorno del sereno, ma senza nemmeno il triste rammarico per il temporale che, a breve, riprenderà. Immaginare un viaggio nei minimi dettagli, ma confidando solo nel potere della suggestione. Nell’aria secca e tra i resti arruginiti si rivela la più intima essenza dell’incontro fra l’uomo e Dio, in terra. Nella terra. Su questa terra. In fin dei conti qui siamo nell’Eden, e l’Eden è di questa terra. Il Paradiso, per fortuna, non c’entra nulla. Quindi l’immaginario topografo compie questo pellegrinaggio, nell’apparente desolazione dal quale l’uomo ha finto di prendere le distanze. E se l’Eden fosse ancora lì e fossimo solo noi, condannati, a non vederlo?

L’estate perde il sangue dell’Eden
L’erede pasquale spodestato
Un altro destino giace defraudato sul terreno
Una ingioiellata ghirlanda funebre poggiata sulla ragione
Il fiore frantumato
Concepisce un bimbo dal dolce odore, così distinguibibile
Lasciato in eredità
[...]
[Eden]

Ricordare. Ricordarsi. Cercare di farlo, seguendo il profilo delle cose, nel sentiero dell’abbandono. Ritrovare le coordinate ancestrali in fondo alla sabbia della nostra mente, sotto gli strati a lungo sedimentati del nostro inconscio collettivo. Riscoprire familiari percorsi mai compiuti, certi che è nel silenzio che si cela la natura divina dell’uomo. O l’umana natura di Dio.
Sussurri e non grida. Quindi la riscoperta dell’Eden non può essere solo geografica, visto che un pezzo di strada è dentro di noi, nella carne. La riscoperta dell’Eden è antropologica e passa per queste membra stanche.

[...]
Solo felice di abbandonare l’ansia
Piuttosto che affogare dentro me stesso.

Ho una mente
Le cui difese sono spezzate
A cui sono stati negati doni rubati
Questo non sono io, babe
Non ho neppure la più basilare scusa per me stesso.
[Desire]

L’eredità dell’Eden è un canto d’Aprile, risale i rivoli nei quali si è nascosta la vita.
La colpa potrà anche essere collettiva, tramandata da padre in figlio, ma il riscatto può essere individuale. Ognuno può tornare a rivedere l’Eden, a risalire il lungo muro di confine, anche se in rovina e rivelatore solo di un altro posto che pare abbandonato da Dio e dagli uomini. Un cancello arrugginito, divelto: da fuori sembra impossibile credere che dentro ci sia ancora qualcosa di fertile. Da fuori.

[...]
Figlio della natura
Sai dove sia andata a finire la vita?
La sepoltura procede nelle nuvole
Così impariamo a indugiare
Con la testa nella sabbia
Aspettando che l’impassibile trovi un rimedio
Una ascensione in una fine da stimolare.
Figlio della natura
Sai dove sia andata a finire la vita?
[Inheritance]

Una eredità perduta, scambiata per qualcosa da quattro soldi che però deve essere parsa, ad occhi avidi, come qualcosa per la quale davvero valeva la pena smerciare la propria vita, nella sua più completa essenza. Qualcosa per la quale valeva la pena barattare l’Eden. E l’unica sopravvivenza, con questa ricompensa da quattro soldi o da trenta denari, ci ha relegato ad una vita con la testa sotto la sabbia. Facciamo bene a cercare in mezzo alla polvere e al deserto, dove la sabbia abbonda. E’ qui che deve compiersi l’innalzamento della schiena da una curva che ci ha sotterrati. Qui dobbiamo riscattare la nostra eredità: una eredità che ancora ci aspetta, una eredità che ancora, forse, ci spetta. Malgrado non l’abbiamo meritata.

[...]
Mondo paralitico,
Non ce la faccio a portarlo da solo,
Soltanto per vedere che inizi a dirmi quanto io ne abbia paura.
Ho comprato pregiudizio al posto del mio benessere
Ne è valsa veramente la pena
Quando assaporo che quanto basta non basta davvero
a tenere il dolore sufficientemente nascosto?
C’é un tempo per vendersi
E c’é un tempo per andare oltre.

Spirito,
Da quanto tempo!
[I Believe In You]

Un prezzo troppo alto se ciò che abbiamo sacrificato è la stessa verità della vita. Spirito, quanto tempo è che non ti vedevo più? Come ho fatto rendermi così cieco?

Pochi portano ancora il loro raccolto
Lungo il muro in rovina e il cancello rotto.
Nel lontano entroterra splende la collina radiosa.
Inviolabile il vuoto cancello,
Invalicabile il muro aperto;
E il monte che sovrasta ogni cosa.
[...]
C’é una dolcezza nell’aria
Che fiorì all’inizio del tempo,
Ma ora sta morendo ovunque.
[...]
La colpa sta accanto all’innocenza.
Perciò questo popolo preferisce  vivere qui
E da qui non pensa mai di allontanarsi,
Né di porsi domande.
[Fuori dell’Eden da “Un Piede nell’Eden”,1956, Edwin Muir]

Ecco dunque le coordinate segrete. L’Eden è ancora lì e dentro di noi. Il recinto è aperto ma lo stato di non libertà che viviamo offusca il nostro sguardo. E pensiamo di essere liberi solo perché ci illudiamo che lo spazio nel quale ci muoviamo è più vasto, senza accorgerci che quel muro di recinto non è lì per separare l’Eden, bensì il resto di questa terra, questa terra confusa da una aberrazione di libertà. Ecco dunque: non siamo noi, liberi, fuori dal muro di cinta dell’Eden. Piuttosto, noi siamo prigionieri, dentro il poderoso muro di cinta della nostra vuota terra di incompiuta libertà. Abbiamo confuso la vastità con la libertà, non comprendendo l’infinità di questa prigione, non comprendendo che la vita vera, l’Eden stesso è dentro le cose piccole. La favola della cacciata è una stortura della realtà. L’uscita dall’Eden è solo una auto-condanna, un esilio volontario.
Esseri limitati dunque, esigui, nel corpo, nell’intelligenza, nell’ispirazione, nella durata delle esistenze, che hanno preteso di incorporare, di incarnare l’immensità, questa immensità erroneamente concepita come libertà, questa potenzialità erroneamente considerata infinita. Sarebbe stato meglio portare a pieno compimento una sola cosa che rimanere ebbri in questa illusoria illimitata possibilità d’azione, frutto di una incapacità nel riconoscersi “finiti”. Da dove ricominciare dunque? Dove dirigere i nostri sforzi?

Costruisci sulla mia pelle
Percorri la vicinanza al mio respiro.
Saldati al mio respiro
Rifletti la mia pelle
La ricchezza dell'amore
Sarà testimone agli anni
Prendi la mia libertà

Costruisci sulla mia pelle
Rendi casa la mia testa
La mia libertà è tua per avermi dato un amore sacro.
[Wealth]

Riscattato è il lascito dell’Eden. Le fondamenta sono nel cuore e nell’anima, nell’arrendevolezza alla vera libertà, nella roccia non friabile del vero amore. Allora l’Eden lo si può respirare già sulla pelle. Il dono della propria libertà è un gesto che anziché togliere spazio d’azione, lo espande all’infinito. L’Eden ancorché essere uno spazio chiuso è il luogo che propaga ogni emozione, ogni sensazione. La misura delle cose è uno stratagemma umano e nega l’infinito. Nell’Eden tutto ciò non conta: nell’Eden l’uomo rivela la propria natura infinita che prescinde dalle dimensioni del suo orizzonte.
Ciò che conta è che quello che era perso è stato ritrovato. Ciò che era invisibile è infine rivelato.

Parte II: Le vie sonore dello Spirito

Quanto bene avrei visto i Talk Talk, questi Talk Talk nella colonna sonora di Non bussare alla mia porta, film del 2004 di Wenders. Quanto bene la loro musica, questa musica, ne avrebbe riempito i panorami brulli, descrivendo le inquietudini del protagonista, un uomo giunto alla fine di una carriera d’attore Western ma anche esausto personaggio da rotocalchi scandalistici (e forse anche al termine del suo percorso su questa terra), che va alla ricerca di un riscatto della propria natura umana. Quanto bene avrei visto e sentito i Talk Talk in qualcuno dei roadmovie di Wim Wenders (anche lui proveniente dalla profonda Europa): film profondamente, intimamente spirituali. Magari proprio nel suo roadmovie per eccellenza, Fino alla fine del mondo del 1991. E chissà, forse non è ancora troppo tardi.
Ma anche alcune dolenti storie dei fratelli Coen avrebbero potuto fare da colonna visiva all’immanenza di Spirit Of Eden.
Fatto sta che quella di Spirit Of Eden è una musica che rimanda contemporaneamente all’infinitamente piccolo e all’immensamente irraggiungibile. All’intimo sfiorare di spazi apertissimi. Due estensioni dello stesso essere, due significati dello stesso tempo.
E il deserto sembra essere il posto ideale nel quale ambientare la musica di Spirit Of Eden, in grado di rammentare tanto l’umano, nello stanco arrancare nella polvere, nel cercare di sopravvivere, quanto l’oltre-umano, nello smarrire lo sguardo verso l’orizzonte. Un orizzonte talmente ampio da poterti far morire di sete, lì dove sei, e da farti contemplare temporali a centinaia di miglia di distanza. O forse un arcobaleno. L’arcobaleno. Il disco rivela già nelle prime note, nei primi accordi, l’epifania dolorosa e salvifica dei sui sviluppi. Il ritmo è lento, dilatato, appoggiato sulle distese che sembra evocare. Il suono è ruvido e dolce, e non cerca una via di mezzo: piuttosto esalta i contrasti. Aboliti definitivamente i synth, la natura dei Talk Talk diviene tanto eterea quanto terrena, quasi ad echeggiare la natura stessa dell’Eden. Le modalità sono quelle del blues: sofferenza e speranza. Bluesamericana. Gli stivali sono sporchi, la mente è invece pulita, lucida. Le caratteristiche ricorrenti sono lo sferragliare della chitarra (spesso in modalità slide), lo sputare sangue dell’armonica, il narcolettico incedere della batteria (spesso dal sapore amaramente jazz), il lento sudare di un pianoforte, il profondo respiro dell’organo, l’asprezza di una voce che non si ritaglia spazi di protagonismo e rifugge ogni perbenismo formale. Questo è ciò a cui The Rainbow da l’avvio. Uno volta in viaggio non ci si ferma. Il pulsare di questo battito dell’anima avvolge completamente Eden: l’orgasmo dei sensi sembra già imminente, il processo di induzione emotiva pare già al culmine. I crescendo e i diminuendo di Eden sono tali da salire e ridiscendere gli abissi umani con tale vigore che pare non ci possa essere la forza per continuare. Eppure, sebbene forse già cotti dal sole, estenuati dall’emozione, provati dalla durezza del camminare senza ancora nessuna visione della meta, si deve guardare avanti, già con una speranza rifocillata. Molto deve ancora venire, molto deve ancora avvenire. Il desiderio deve ancora manifestarsi, l’esplosione si deve ancora innescare: Desire inizia piano, ma dopo due minuti e quaranta secondi, la detonazione avviene e nulla sarà più come prima. L’incendio dello spirito è totale, irreparabile. E si ripete, in perfetta simmetria, quando mancano esattamente due minuti e quaranta secondi alla fine del brano. Un vertiginoso giro di chitarre acidissimo, su un treno ritmico sussultorio e ipnotico, atrofizza ogni possibilità di liberarsi dalla morsa. La dannazione o la salvezza sono solo ad un passo. Testa o croce. Le due facce della stessa realtà. La pace giunge alla fine, sulle punta delle dita appoggiate sul pianoforte. E da lì proseguono, affiancate dalle spazzole percosse sulla batteria: questo l’attacco di Inheritance. Se Desire è fisica, Inheritance è pindaricamente mentale, prefigurazione di una sistesi ancora solo sognata. La voce di Hollis non ha regole, bellissima nel suo procedere asfittico, l’impeto è tale che in alcuni punti sembra mangiarsi le parole. Se in The Colour Of Spring (1986), già predefigurando il loro mondo sonoro a venire, i Talk Talk presentavano la loro I don’t believe in you, in Spirit Of Eden ha luogo l’atto di fede e a trovare posto c’é quella carezza sensuale di I believe in you. Non siamo nella sfera del caso. Ma neppure un vago e vano ripiegare su una verità approssimativa e consolatoria (rileggetevi il testo). In I believe in you, si rivela infine lo Spirito, forse solo perché il percorso è ormai avanzato e l’ora è tarda. E la fatica merita una ricompensa, una ricompensa vera e quindi magari agra. Un coro di pochi secondi nel finale ci fa capire che ormai è giunta la consapevolezza dell’Eden. Pochi secondi perché solo chi è attento merita questo ritorno. Solo chi non ha cercato scorciatorie. Finalmente si arriva nel cuore dell’Eden. Finalmente si arriva a Wealth, che nella sua avvolgente atmosfera sospesa, libera e purifica l’anima e il corpo.
Finalmente la pace. Una pace che però non è riposo, staticità: questa pace è altra cosa. Questa pace è allo stesso tempo incessante energia vitale e inesauribile quite. L’Eden non è un luogo, una dimora di beatitudine eterna, ma un viaggio di ritorno. Questo senso di ritorno, questa dichiarazione di appartenenza disvela il significato per continuare, in modo più pregno, l’umano cammino. E non ha importanza quanto esteso sia l’Eden secondo i metri di misura umani, così come non importa la durata di questo viaggio musicale e spirituale. Non importa se il vestito è logoro (come dice Muir: “di questi cenci e questi stracci veste la mia anima”). Quarantuno minuti o ventuno anni. O tutta la vita. Comunque sia, si ritorna.

Compio il viaggio di ritorno,
Per cercare quelli del mio sangue,
Vecchie fonti prosciugate i cui fiumi scorrono lontano
Tra te e me.
Ma qui, ma qui c’é acqua.
Limpida o torbida che sia.
[...]
Attraverso un infinito vagabondare
Affrettarsi, indugiare,
Vengo più vicino,
Con passo da sonnambulo
Per trovare il luogo segreto
Dov’é la mia casa.
[...]
[Il Viaggio di Ritorno da “Il Labirinto”, 1949, Edwin Muir]

Parte III: La compagnia dello Spirito

"Before you play two notes learn how to play one note - and don't play one note unless you've got a reason to play it". Questo il principio musicale che ha ispirato Mark Hollis. Tuttavia, sebbene il senso di misura sia evidente, le composizioni sono lunghe e strumentalmente articolate: il cantante Mark Hollis è impegnato, al piano, all’organo e alla chitarra, il produttore-compositore Tim Friese-Greene a dargli man forte ai medesimi strumenti e all’harmonium, Mark Feltman all’armonica, Lee Harris alla batteria e Paul Webb al basso. Oltre a questi strumenti si aggiungono: chitarra a 12 corde, violino, oboe, fagotto, clarinetto, tromba (a cura di Henry Lowther), dobro e, addirittura, un coro. E naturalmente l’arte grafica del fido James Marsh, anche lui ai suoi massimi livelli espressivi. Spirit Of Eden annovera una lunga lista di musicisti (se ne contano diciassette), nell’ingaggiare i quali verrà disperso l’ampio budget messo a disposizione dalla speranzosa EMI, le cui aspettative risiedevano in un nuovo grande successo commerciale. Qualcosa facile da prevedere ai tempi e altrettanto facile da bissare. Una botte di ferro, debbono aver pensato i manager della EMI. Non aggiungiamo ulteriori commenti. Ma ci congediamo da questo pensiero ogni volta con un sorriso sulle labbra nell’immaginare le loro belle facce, il giorno in cui il master del disco è stato consegnato.

Parte IV: L’eredità dell’Eden

Chissà cosa passava per la testa di Hollis e Friese-Greene quando hanno definitivamente stabilito le linee guida del dopo The Colour Of Spring ancora forte del successo di Life’s what you make it. Già: la vita è ciò che di essa ne fai. Con il senno di poi è evidente che il mutamento è stato graduale verso il decisivo limbo poi inauguarato come sponda finale. Però  sarebbe bello sapere cosa li ha spinti a porsi completamente al di fuori del loro tempo, consegnando alla Storia della Musica alcune delle pagine meno ingiallite che si siano mai scritte e lette. Fuori dal tempo, dunque esenti da ogni possibilità che la loro materia venga corrotta. Il loro cuore deve essersi riscaldato al suono di Miles Davis e delle ballad di John Coltrane. Sicuramente la loro mente si era già aperta alle intuizioni “spaziali” di Brian Eno (Spirit Of Eden ce lo ricorda in più frangenti). Certo, altri nobili artefici di questa congiunzione fra eleganza pop, sudore blues e astrazione jazz c’erano ovviamente già stati: Tim Buckley, Nick Drake, Van Morrison, David Sylvian. Ma forse è stato proprio il riportar indietro le lancette dell’orologio, o meglio a far risalire la sabbia nella clessidra, che ha consentito a Hollis e a Friese-Greene di non cadere troppo nei solchi da altri tracciati. Forse ne sono stati inconsapevoli prosecutori. In quegli anni altri stavano per scavare in territori attigui: gli Bark Psychosis di Hex (1994) e gli Slowdive di Pygmalion (1995). Due dischi che rifulgono nella luce dell’Eden e nel soffio dello Spirito.
Altri ancora seguiranno quelle coordinate, reciteranno quel lessico, riportando in vita quell’ansia di ricerca di cui, a tutti gli effetti, i Talk Talk furono i pionieri: Mazzy Star, Tram, Elbow, Movietone, Spain, Sparklehorse, Clogs, Shearwater (nel singolo del brano Rooks è inclusa una cover di The Rainbow, spesso eseguita anche in contesto live), ma anche Sigur Ros e Mogwai (più che altro per le rarefazioni atmosferiche che non per le astrazioni melodiche). Gli insetti del paradiso terrestre hanno ben svolto il loro compito, avviando questo sapiente processo di impollinazione, ma avendo cura di donare il seme in parti e in misure differenti. Ognuno di questi gruppi è infatti riuscito a trovare una personale strategia per lambire nuovamente i lotti segreti che riconducono all’Eden. Che riconducono a Spirit Of Eden. Forse però, fra i vari depositari del retaggio umorale e musicale dei Talk Talk, sono i no-man dei due album Returning Jesus (2001) e Together We’re Stranger (2003) ad aver dimostrato maggiore ricettività e gratitudine. Amare profondamente Spirit Of Eden e Laughing Stock, necessita di confrontarsi con la concreta evanescenza sonora propria dei no-man.
Ma Spirit Of Eden, nonostante in tanti l’abbiano spergiurato, non è né il precursore né dello slow-core, né del post-rock. Sarebbe riduttivo e pertanto un tantino offensivo. Il disco ha ben altri meriti. Ha ben più alti meriti.

Parte V: Quel che resta dell’Eden

Sappiamo che Mark Hollis è stato autore di un unico, imperdibile, omonimo album solista nel 1998, che merita di essere sviscerato in un racconto a parte. Sappiamo che Paul Webb e Lee Harris, sotto il nome di O’ Rang hanno generato una miscela sperimentale, frutto della lezione dei Can, e sospesa tra trip-rock e divagazioni world (Herd Of Instinct del 1995 é superiore a Fields & Waves dell’anno successivo). Lee Harris, chiuderà il cerchio, suonando la batteria sull’album del ritorno degli Bark Psychosis (Codename: Dustsucker del 2004). Paul Webb, utilizzando l’alias Rustin’ Man s unirà a Beth Gibbons (esule dei Portishead), per uno dei più begli album del primo decennio del nuovo millennio, Out Of Season del 2002. Tim Friese-Greene invece partorirà, con il moniker Heligoland, due lavori, nei quali la componente alt-rock è maggiormente messa in evidenza: il primo omonimo è del 2000, mentre l’ultimo, Pitcher, Flask & Foxy Moxie è del 2006. In ognuno di questi lavori, gli ex-Talk Talk riverseranno un po’ di qell’eredità sonora e spirituale che li ha contraddistinti. Ognuno di loro, ovunque sarà, si porterà dietro, come una casa mobile, quel po’ di Eden che gli basta per ricordare ed essere felici.



Tu eri qualcuno in cui credere,
Un posto di speranza in un mondo mutevole
[...]
Essendo a lutto per la perdita del paradiso,
Lacrimando per la perdita del paradiso
Giù, vicino al muro del pianto.
Tu eri qualcuno in cui credere,
Donavi vita dove c’era desiderio di conoscere,
Ma è questa la natura dei viventi:
Contare soli gli anni rimasti nel proprio cuore.
[Weathered Wall da “Brilliant Trees”, 1984, David Sylvian]

[...]
E camminano come al suono di una musica sotterranea
Di un’aria che sempre s’annoda e si snoda
Che muove i loro passi sebbene caminino in silenzio,
Perché la musica ha sepolto lì sé stessa,
E tutte le sue lingue inondano in silenzio
Quel moto che solo dovrebbe esser melodia.
[...]
Questo è il luogo della pace, pago di sé.
Tutti l’abbiamo visto e mentre lo guardiamo
Noi siamo veramente lì, e anche ora nel ricordo,
Qui su questa strada, seguendo una stella cadente.
[Il Viaggio di Ritorno da “Il Labirinto”, 1949, Edwin Muir]

Stefano Fasti

Note:
Traduzioni di Edwin Muir tratte da: “Edwin Muir: Un Piede nell’Eden e altre poesie” di Marina Pellizzer (introduzione di Carlo Izzo), Giulio Einaudi Editore, 1974.

La recensione è stata originariamente pubblicata qui: http://www.storiadellamusica.it/Talk_Talk_-_Spirit_Of_Eden_(EMI,_1988).p0-r3064