lunedì 26 settembre 2011

ANATHEMA "FALLING DEEPER" (Kscope, 2011)

Gli Anathema devono averci preso gusto. Ad autoanalizzarsi, a rileggersi, a revisionare se stessi e il proprio passato. E così nell’attesa si un nuovo album, previsto per il prossimo anno (ma teniamo le dita incrociate, vista la lunga gravidanza che ha portato all’ultimo “We’re Here Because We’re Here”), e sulla scia di quanto fatto con “Hindsight”(2008), la band dei fratelli Cavanagh ritorna ancora una volta sui propri passi più antichi, quando l’attuale vena post-progressiva con elementi di post-rock e psichedelia atmosferica era ancora distante, e un metal più epico e di stampo doom scandiva le composizioni. La reintepretazione è attuata su tempi più lenti, mentre il pathos rimane intatto, sia per la coerenza compositiva del materiale prescelto, sia per le orchestrazioni chiamate in gioco per sostituirsi alle chitarre, laddove oggi non vogliono più arrivare.

Tuttavia l’operazione non conduce mai a risultati pomposi e scontati, segno questo della bontà della scrittura originaria dei pezzi (Everwake, J’ai Fait Une Promesse e la stessa Alone, non è che poi fossero così diverse al loro esordio, tranne che per il contributo dell’orchestra). Semmai la componente eterea è amplificata attraverso un emozionante uso delle chitarre, che pur destituendosi dal ruolo di regali protagoniste, giungono a ricamare accordi di grande suggestione e a produrre, quando elettrificate, feedback sonori di ampia portata (largo è l’uso dell’e-bow). La presenza di Anneke Van Giesbergen (indimenticata singer dei migliori The Gathering) nel classico Everwake, fa tornare alla mente il bellissimo esperimento del tour acustico degli olandesi, concretizzato nello stupendo live “Sleepy Buildings” del 1994. Non è secondaria la prestazione vocale della brava Lee Douglas (specialmente in Alone), anche se le sue architetture sono molto più sfuggenti e dunque le sue doti potrebbero apparire meno evidenti. L’intensità mantiene un livello di espressività molto dimesso e poco incline all’impatto. Anzi la sfida è ancora una volta questa: proporre un’altra dimostrazione pratica dell’impatto. Farlo nello stesso modo di quindici anni fa non avrebbe avuto senso e di certo non avrebbe dato valore aggiunto. Non credo che gli Anathema vogliano tuttavia darci una prova di maturità conquistata con validità retroattiva: davvero non ne hanno bisogno e non ritengo vogliano minimamente affrancarsi dal loro passato. Anche perché determinati brani dal vivo vengono eseguiti ancora nell’arrangiamento primigenio (almeno così è avvenuto nel tour di “Hindsight”). E alla fine di questo “Falling Deeper”, l’unico momento nel quale ci si ritrae dal plauso è proprio nel potentisimo arrangiamento di cui viene dotata l’immane Sunset Of Age (da “The Silent Enigma” del 1995): mi sembra che il meglio di sé questo lavoro lo dia in quelle riletture diafane e minimali di Crestfallen, Everwake o They Die (ossia proprio quelli dell’EP “The Crestfallen” del 1992 con il quale gli Anathema hanno esordito). In taluni casi le modalità prescelte per le nuove fattezze hanno portato a più drastiche modifiche: Kingdom, Sleep In Sanity e We The Gods non solo sono geneticamente “altre” rispetto a ciò che erano (via ogni timbrica growl), ma la veste minima si è concretizzata anche in un significativo restringimento della durata, in conseguenza della quale tali tracce vengono (se)veramente ridotte ad una dimensione di nuda essenzialità.

E’ ovvio che qualsiasi giudizio sugli Anathema non potrà basarsi su un album del genere, ma richiederà invece un personale confronto tanto quanto con quell’innovativo capolavoro di “Alternative 4” del 1998 (e del quale per l’ultima volta è stato protagonista Duncan Patterson), quanto con “A Natural Disaster” del 2003. Ma anche la conoscenza del primo quadro sonoro degli Anathema, quello di dischi del calibro di “Serenades” (1993), “The Silent Enigma” ed “Eternity” (1996), quando tutte le caratteristiche qui epurate erano motivo di gioia per migliaia di fan in tutto il mondo, non può e non deve essere ricondotta ad una esperienza minore o più adolescenziale.  
Stefano Fasti

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La recensione è stata originariamente pubblicata su Storia della Musica: http://www.storiadellamusica.it/Anathema_-_Falling_Deeper_(KScope,_2011).p0-r4243

mercoledì 21 settembre 2011

STEVEN WILSON "GRACE FOR DROWNING" (KScope, 2011)




Cosa accade se uno dei più talentuosi musicisti tra quelli emersi ad inizio dei 90s, osannato dapprima dalle schiere di fan orfane dei Pink Floyd e poi (negli Anni Zero), una volta screditata la vena psichedelica ed il suo gruppo entrato nel roster di una delle label più altisonanti in campo metal (e divenuto quindi superstar mondiale, grazie anche alla sua attività di produttore), scopre in mezzo al deserto una antica epigrafe che consente di riattivare un portale posizionato su una frattura dimensionale che permette di tornare in epoche passate?

PHASE ONE. La-lai-la-la. Mr. Wilson si scalda la voce con qualcosa a metà strada fra un esercizio di lallazione e un canto sillabico: "Grace For Drowning" inizia con la languida lucentezza della title-track e il sapore di una tarda estate dei Sixties, con la radio che trasmette i Beach Boys e con il piano (sui tasti le dita di Jordan Rudess dei Dream Theater) a girovagare per qualche spazio siderale, forse a causa di una qualche interferenza cosmica sulla cui frequenza viaggiano, surfando, i Muse. Fra le spiagge della California e Sirio. Ma è con Sectarian che entra in funzione la caleidoscopica macchina del tempo che stavolta ha ideato Steven Wilson: in questo imponente strumentale il congegno per viaggiatori spazio-temporali viene settato per rimanere in Inghilterra ma nel periodo in cui i King Crimson avevano già abbandonato tanto le sponde romantiche dei primi due album (“In The Court Of The Crimson King” del 1969 e “In The Wake Of Poseidon” del 1970), quanto i lidi sperimentali in odor di jazz del terzo e quarto disco (“LIzard” del 1971 e “Islands” del 1972), che comunque riemergeranno prepotentemente nel corso di questo "Grace For Drowning", dando forma e sostanza a quelle asperità chitarristiche e a quelle poliritmie che sarebbero divenute la loro nuova nota caratteriale (qui si stabilisce un nesso molto stretto con quel portentoso pezzo che risponde al nome di Fracture su "Starless and Bible Black" del 1974). In Sectarian il gioco non finisce qui, essendo ben evidenti passaggi che rimandano alle intemperanze dei National Health, alle anarchie strutturali degli Henry Cow e, ancora, ai Crimson del 1994 (quelli di "Thrak" e del doppio trio per intenderci), con i loro contrappunti supersonici (vedi la title-track Thrak, richiamata a gran voce). Tutt'attorno un poderoso muro sonoro a base di hammond e mellotron, nonché lo sputare fuori l'anima del sax soprano di quell'incredibile musicista che è Theo Travis che qui incrocia le armi con il clarinetto di Ben Castle (nella Steve Hackett Band). Uno Steven Wilson così cocciutamente retrò non lo si era conosciuto neppure ai tempi di "The Sky Moves Sideways" (1995) quando la musa dei Pink Floyd era quella più manifesta. Qui è la band di Fripp ad essere focus e fuoco ispirativo: i King Crimson sono da sempre presenti nelle circonvoluzioni cerebrali del giovane Wilson (ricordate Dislocated Day?), ma ora nel Wilson della maturità sembra definitivamente caduto quel velo di ipocrisia che, nello scorso decennio, lo ha portato a camuffare le proprie influenze, pianificando brani e dischi talvolta in antitesi alle sue intime e più vere inclinazioni. Wilson ha dichiarato di recente che proprio durante il lavoro di remastering della discografia "in cremisi" (ed in particolare dell’ambiziosissimo "Lizard" del 1970), questo sentiero è parso quello necessario da percorrere. Posso confermare, da quasi coetaneo, che effettivamente superati i 40 la spocchiosa voglia di dichiararsi alternativi ad ogni costo passa quasi del tutto in secondo piano, preferendo rifar pace con le passioni adolescenziali. Entrare nella testa e nelle logiche di Fripp, deve aver innescato nel quarantaduenne musicista inglese quel processo di insana identificazione che colpisce certi giornalisti di cronaca nera intenti a descrivere le menti criminali di quei serial-killer che seguono da una vita. Deform To Form a Star è una delle cose più belle e sincere mai uscite dalla mente e dal cuore di Steven Wilson: i brividi mi scorrono lungo la schiena ogni volta che, in questi giorni di agosto morente, è entrata nelle mie orecchie e quindi nel cervello e giù nell'anima, come un pozione dolce e vivificante. Pensando al suo repertorio, cercando di individuare dei precedenti musicalmente accostabili, mi verrebbe di indicare quelli che reputo fra i pezzi più intensi in assoluto dell'esperienza Porcupine Tree: Stop Swimming, Buying New Soul, Collapse The Light Into Earth. Una ballata "spaziale" di ampissimo respiro, introdotta da un piano struggente e sognante e sottolineata da un elegante basso (Tony Levin), che incorpora un liquido assolo di chitarra del padrone di casa (tra i suoi più belli). E poi, nel finale, una tempesta acustica che sembra contemplare gli anfratti più seducenti di “Lightbulb Sun” (2000). Davvero non c'è alcun margine di rimpianto nei confronti di quanto Wilson ha scritto in passato, essendo così luminoso il suo oggi. No Part Of Me è un'altra traccia importante del lavoro, che è in grado di dimostrare, attraverso la dedizione all’esaltazione di ogni singolo suono, quanto Steven Wilson sia cresciuto professionalmente: una base percussiva elettronica concitata ma delicatissima (sembra uscita da “100th Window” dei Massive Attack, mentre invece è interamente ad opera di quel genio creativo di Pat Mastellotto, drummer in carica con i Crimson dalla reincarnazione degli Anni '90 fino all'ultimo album in studio del 2003), che apre la porta ad una sezione d'archi funzionale e mai fuori luogo (caratteristica che manterranno tutti gli interventi della London Session Orchestra nel corso di "Grace For Drowning"), mentre Nick Beggs e Trey Gunn (impegnato anche alla Warr Guitar) ricamano al basso punteggiature di grande suggestione, con un rarefatto assolo di Theo Travis al clarinetto, reminiscente Jan Garbarek, che introduce ad una seconda sezione in cui il pathos generale si accosta a quanto invocato dai Tool e nella quale prorompe una pindarica batteria e una stralunata chitarra (che pare uscita da No Twilight Within The Courts Of The Sun dal debut album solista del 2008, "Insurgentes"). Da segnalare la presenza dell'ottimo Markus Reuter, leader dei Centrozoon e fra i più validi degli ex-allievi di Mastro Fripp, alla sua "touch guitar". Con Postcard si cambia registro: qui l'autore pare voler sintetizzare e palesare la sua vena più marcatamente pop, realizzando uno strano ma riuscito ibrido fra i Coldplay di “Viva La Vida” (2008) e i suoi Blackfield: per quanto "leggera" e po' fuori contesto rispetto agli stilemi di "Grace For Drowning", Postcard rimane gradevole, grazie all’incantevole arrangiamento degli archi, incupendosi appena un po' negli ultimi trenta secondi. Significativo anche il lavoro vocale realizzato con il Synergy Choir protagonista del preludio a quel “pezzo da 90” dell'album, Raider II, di cui parleremo più avanti e nel quale ritornerà prepotentemente il coro, in modalità tali da esternare ipotesi meritevoli di un parallelismo con i Magma. Il primo dei due Cd si chiude con i nove minuti di Remainder The Black Dog: un reiterato fraseggio di piano le da il via e riporta ancora prepotentemente indietro nel tempo, riconducendo in una qualche piega dimensionale nella quale si sovrappongono i National Health, i King Crimson di “Lizard” (Happy Family, in special modo), i Van Der Graaf Generator, gli Henry Cow e addirittura i Dream Theater "evoluti" apprezzati in brani come New Millennium o Scarred. Verrete investiti da mille schegge sonore impazzite, che alla velocità della luce vertiginosamente ruotano in un turbinio che convoglia sax, hammond, allucinanti assalti di batteria (Nic France), distorti assoli di chitarra (ospite d'onore, Steve Hackett), progressive "old school", avant-jazz, prog-metal, rock in opposition, che permette di tornare, stravolti, a riveder le stelle solo negli ultimi minuti.

PHASE TWO. Il tempo di cambiare dischetto, e si subito è avvolti dalle note sognanti e malinconiche dello strumentale acustico Belle de Jour (si riassaporano certi acquerelli solisti dell'ex-chitarrista dei Genesis), in grado di lenire un po' le ferite inferte dai tanti sussulti. La paranoia, tematica ricorrente nelle liriche di Wilson, trova naturale prosecuzione in Index, adagiata su una angosciante ritmica che evoca i fantasmi dei Nine Inch Nails (di cui ancora una volta è artefice Pat Mastellotto), in un testo che parla di un collezionista che riesce a sentirsi vivo solo fra oggetti inanimati, indipendentemente dal fatto che questi siano rifiuti raccolti dalla spazzatura o macabri feticci umani. Abandoner sul precedente "Insurgentes" portava già in sé questa tetra ma feconda vena impressionista. Gli archi ancora una volta (London Session Orchestra) hanno un ruolo decisivo in una atmosfera veramente malata. Anche la successiva Track One prosegue su sentieri mentali e musicali decisamente disturbati (che fanno riaffiorare Salvaging su "Insurgentes"), che sfoga in una eruzione maligna, anche se gli arpeggi di acustica nel finale danno l'impressione che il buio sia passato. E invece no, perché ormai si giunge all'epicentro di questo "Grace For Drowning": l'immane precipizio di Raider II, ovvero ventitré minuti di musica totale e totalizzante (altrettanto duravano The Plague Of Lighthouse Keepers dei VDGG e Lizard dei King Crimson, composizione con la quale qui ogni riferimento è tutt’altro che casuale). Andrebbe ascoltata in completa oscurità, ma gambe e cuori tremeranno, per questo suo indurre a librarsi sul baratro. L'incipit stesso è degno di un introdursi in un antro oscuro, perdendo la speranza di incontrare qualcuno capace di indicare la diretta via ormai smarrita. Ad un certo punto alcune familiari note riecheggianti La Carrozza di Hans (PFM) o The Court Of The Crimson King, sembreranno venirvi a salvarvi la pelle, sulle ali di un flauto. Ma molta strada bisognerà ancora attraversare prima di percepire la rassicurante rugiada del mattino e davanti dovranno ripassarvi tutte le entità del "tempo antico" che in varia misura abbiamo, fugacemente o meno, già incontrato nel percorso: Henry Cow, Soft Machine, Van Der Graaf Generator, National Health, Magma e ovviamente i King Crimson (in tutte le loro essenze dal '69 al '74) si scambieranno rapidamente la scena, senza darvi neppure il tempo di riconoscerli prima di mutare ancora. Spesso a condurre le trasformazioni sono dei serratissimi frangenti in cui tastiere e chitarre si inseguono senza tregua (dal retrogusto prog-metal), che sembrano pedissequamente usare la forma adottata dai KC in un brano possente come Level Five su “The Power To Believe” (2003). Eppure tutto inspiegabilmente funziona: il coro, gli inserti di clarinetto, flauto e sax (sempre ad opera di Theo Travis), la strumentazione realmente "vintage", l'ispirato assolo di pianoforte di Rudess, la voglia di elaborare la stesura di un manifesto sonoro, non saprei dirlo cosa renda tutta questa massa oscura credibile e coerente con questo scrutarsi alle spalle, con uno sguardo rivolto a quarant'anni indietro nel tempo, alla ricerca delle (proprie) radici. Davvero non saprei dirlo, visto che anch'io ho condiviso percorsi musicali comuni a quelli di Wilson per poi abbandonarli in cerca di rinnovamento. Non posso rispondere: conviene lasciarsi telluricamente cullare dal finale di questa infinita Raider II, che omaggia, tirandola per le lunghe, quello dell'immortale Red (il gruppo non lo cito più). Il secondo supporto e dunque l'intero "Grace For Drowning" ci saluta in punta di piano, con Like Dust I've Cleared From My Eye, una solare ballata con una sensibilità degna degli I Am Kloot, che aumenta di consistenza lentamente (ritroviamo Tony Levin) e che pare ricongiungersi all'abbacinante luccichio della title-track. Il finale sembra troppo tenue (non debole), specialmente perché non ha abbastanza "materia adiposa" per reggere il peso schiacciante del magnum opus che la precede. Il disco per forza di cose non è esente da lungaggini e anzi, contenendosi un po', avrebbe potuto più agevolmente entrare in un unico dischetto della durata di 70 minuti, filtrando certe divagazioni evitabili (vedi la stessa Raider II). Un merito particolare va a Dave Stewart, che ha curato gli arrangiamenti degli archi e dell'ensemble vocale Synergy, elaborando partiture efficaci che non risultano mai ridondanti. Se "Insurgentes" aveva aperto la serratura, dischiudendo le porte del mondo segreto del leader di no-man e Porcupine Tree, costituendo una tappa cruciale del suo discorso artistico, "Grace For Drowning" è lo stargate spalancato su un universo alternativo, che si chiuderà alle spalle di chiunque lo imboccherà.

CODA. La dissertazione su un album così poliedrico e denso meriterebbe analisi da angolazioni differenti, anche se mi rendo ben conto per alcuni (o molti, chissà...), l'aspetto di esaltazione della fase più creativa dell'epopea Progressive (1969-1974), possa costituire la più imperdonabile delle colpe. In tale valutazione, va tenuto conto che Wilson, in questo 2011, portando a casa un risultato significativo in termini di sintesi fra passato e presente, incarna il ruolo dell'uomo giusto nel posto giusto: quest'anno, oltre ad aver concluso il mix in 5.1 di una ulteriore tranche di album storici della formazione di Fripp (“Starless and Bible Black” e “Discipline”), è stato in cabina di regia per le reissue di altre due opere fondamentali del Prog dei Seventies: "In The Land Of Grey And Pink" dei Caravan e "Acqualung" dei Jethro Tull, entrambi del 1971. Perciò nonostante molti interrogativi rimarranno aperti (sentenzierà il tempo, come sempre, il miglior critico e giudice musicale), sarà difficile non tentare di darsi una risposta all'unica questione plausibile: cosa sarebbe accaduto se un personaggio come Steven Wilson fosse nato quindici anni prima?

Stefano Fasti



La recensione è stata originariamente pubblicata su Storia della Musica: http://www.storiadellamusica.it/Steven_Wilson_-_Grace_For_Drowning_(KScope_,_2011).p0-r4242


Official Artist Site: http://www.swhq.co.uk/

Official Album Site: http://www.gracefordrowning.com/

Italian Fan Site: http://www.porcupinetree.it/

lunedì 5 settembre 2011

PINEDA "S/T" (DeAmbula Records, 2011)






Prendono di sorpresa questi Pineda. Il solo conoscere i nomi dei musicisti coinvolti in questa formazione (Marco Marzo Maracas, chitarrista e ideatore del progetto, Floriano Bocchino, alle tastiere e al piano Rhodes e Umberto Giardini aka Moltheni alla batteria) non aiuta a indovinare la direzione in cui soffia il vento. Ecco, lasciate ogni aspettativa di post-rock o voi che entrate. Nonostante il forte legame che lega Umberto Giardini alla “scena di Chicago” e la stima, mai celata, che lo unisce a John McEntire dei Tortoise, stavolta la strada intrapresa va ad impregnarsi di quel “liquido seminale” che i tardi anni Sessanta e i primissimi Seventies hanno prodotto in ambito Progressive. Forse sarebbe più lecito parlare della Scuola di Canterbury (leggi la filiazione più creativa e meno ridondante del Prog di quegli anni). E’ la lezione proveniente da quella provincia del Kent che in questo disco sembra vivere di nuova linfa e di nuove idee: e così sonorità chiaramente riconducibili a Soft Machine, Gilgamesh, Hatfield & The North, National Health (al cui retaggio si riannoda Marco Marzo) stringono alleanza con la fazione più “matematica” e più affine al jazz sperimentale del post-rock statunitense (Tortoise, The For Carnation, Don Caballero, Windsor For The Derby). In realtà questo gemellaggio sonico era già tutto nel DNA di queste band dei Nineties: vedere dal vivo i Tortoise (momento in cui la loro esperienza si fa ben più esaltante e “grassa” rispetto ai perfetti, studiatissimi lavori in studio) spinge naturalmente al ricondursi a ciò che i Hatfield & The North avevano fatto vent’anni prima. Nei Pineda non manca una matrice psichedelica in grado di innervare l’intero lavoro e particolarmente evidente nelle chitarre.
E’ strano pensare come il post-rock, figlio di quella istanza post-punk di decapitazione dei cliché del rock, chiuda il cerchio facendo pace con alcuni tra i più geniali dei propri “padri putativi”, che pure dopo il ‘78 sembravo meritevoli solo di una epurazione culturale. Quando invece si spegne la verve la rivoluzionaria, si compie quell’autocritica necessaria per capire che non tutto ciò che è nuovo è davvero innovativo. E allora, a chi passa questa maturazione evolutiva si dischiude la grande possibilità di (ri)scoperta del proprio passato, delle avanguardie che furono e che necessitavano di essere approfondite prima di essere mandate al patibolo solo con l’ignorante accusa di essere “vecchie”. Ecco da una persona attenta come Umberto Giardini non poteva che esserci questa voglia di rimessa in discussione della propria identità, senza rinnegare nulla, ma ridando rilievo a ciò che davvero contava e conta. E ripartire da lì.
L’album è splendido ed è una gran gioia sapere che sia nato in Italia (in cui pure c’è stata una tradizione progressive forse non così direttamente riconducibile a ciò che accadde a Canterbury, ma qualitativamente altissima… andatevi a ripescare le improvvisazioni live della PFM nei ’70): da molto tempo non trovavo questa profonda attenzione a quella musica strumentale che scaturiva attraverso intense jam e non per il tramite di uno studio a tavolino. Mi verrebbe di chiamarlo rispetto, se non fosse per il senso di reverenziale timore a cui questa parola tende ad indurre: stavolta, paradossalmente, proprio a partire da un tale “rispetto” si genera una struttura sonora non così celebrativa o pedissequa nei confronti delle formazioni citate. Piuttosto viene compiuto questo necessario lavoro di rivisitazione senza cercare di trasporre suoni e idee semplicemente intercettandole e filtrandole attraverso l’elettronica. Qui si suona e si suona veracemente!
Dovessi parlare dell’album in dettaglio, non tralascerei alcuna traccia: vi basti sapere che una traccia così cerebralmente emotiva come Touch Me, in grado di fondere perfettamente le diverse anime dei Pineda, non la sentivo da parecchio tempo. Un disco, e un gruppo, davvero “Avant(i)-retrò”.

Lavel Site "DeAmbula records":
http://www.deambularecords.com/




Recensione originariamente apparsa su "Storia della Musica": http://www.storiadellamusica.it/Pineda_-_Pineda_(DeAmbula_Records,_2011).p0-r4210

giovedì 1 settembre 2011

NOSOUND "THE NORTHERN RELIGION OF THINGS" (KScope, 2011)

I Nosound in versione "navigazione solitaria", un live album che è anche qualcosa di altro: non c'é pubblico, ma la musica è viva ed induce ad intime riflessioni...

I Nosound all'ennesima potenza. Non tragga errate conclusioni il lettore: contrariamente a quanto fanno negli ultimi anni molti gruppi che sentono la necessità di proporre una nuova lettura del proprio materiale passato, rivolgendosi  ad orchestre o a sezioni d’orchestra e potenziando l'aspetto sinfonico (anche laddove non era in origine presente), i Nosound ricercano la propria "forza", in un processo di riduzione degli elementi di dispersione. Si va al nocciolo, o per dirla alla romana (o all'inglese, se vi piace di più, tanto il significato è lo stesso…), si va al "core". Perché la potenza vera sta nell'esaltazione delle piccole cose. E così all'indomani della performance "in solitaria" che lo scorso anno Giancarlo Erra (leader e compositore della formazione) ha tenuto in un piccolo club londinese, è scaturita l'idea di fotografare quel particolare momento, replicando in studio la performance, suonando dal vivo, con il solo supporto offerto dai campionamenti e, infine, registrandone l’esito senza l’uso di sovraincisioni. Perché, se negli anni '90 il concetto di "unplugged" ha sotto diversi punti di vista snaturato l'ispirazione primigenia di certe canzoni (non sempre restituendole a versioni dall'effetto "nude" così convincente), a quasi vent'anni di distanza si può far pace con la spina attaccata, con l’elettrificazione e con i laptop accesi, se la musica che ne scaturisce mantiene una sua naturale veracità.  In questo senso, Erra, “in solitudine” su un palco o in uno studio, alla ricerca dell'essenza di se stesso, rimane in compagnia delle sue chitarre e delle sue "macchine", a dare colore e calore ai brani estratti dai suoi tre album in studio. Che poi, per Giancarlo Erra, è davvero un tornare al momento creativo della composizione. Ecco cos’è questo "The Northern Religion of Things": la chiusura di un cerchio. Un riannodarsi di fili, un ritorno, fatto nella stessa modalità con cui il viaggio aveva avuto inizio: da solo. Nel 2005, come evento promozionale per la pubblicazione del debut album "Sol29" era stato organizzato un piccolo concerto in una biblioteca del centro di Roma, in cui i Nosound si mostrarono già in veste ridotta. Serbo ancora il ricordo dell'esecuzione della title-track. Ora in questo "live in studio", riaffiora quella stessa emozione, che nasce però da un singolo respiro, dal pulsare di un solo cuore. E, paradossalmente, proprio in virtù di ciò, l’esecuzione si sprigiona con una vitalità per nulla depotenziata o meno concreta. The Broken Parts (uno dei più bei pezzi scritti dalla penna di Erra), Fading Silently, Tender Claim, Hope For The Future, trovano credibili versioni in una dimensione che, come detto, ne rammenta la loro genesi. Certo una Kites (cavallo di battaglia nei concerti), senza la batteria di Gigi Zito, stenta un po’ a decollare, ma anche qui non vengono stravolti i tratti che la rendono una delle composizioni più amate dai fan dei Nosound (vedi il liquido assolo di synth, ad esempio). The Misplay, poi mantiene praticamente la stessa struttura che aveva su “Lightdark” (2008), la stessa intima bellezza, che pare rendere vicini i mondi sonori del David Sylvian più minimale. Stesso discorso proprio per Lightdark che, anche nel nuovo vestito, celebra le stesse atmosfere e le stesse suggestioni che evocava sull’album a cui dava il nome. 
Non c’è più nulla qui, in queste reinterpretazioni, che sospinga ancora la tesi di una ispirazione comune con lo Steven Wilson che fu (no-man o Porcupine Tree di “The Sky Moves Sideways”) o con i lirismi Gilmouriani, essendo radicalmente cambiato il focus, il contesto e la prospettiva gettata sul senso di fedeltà alle cose minime che danno vita alle canzoni, senza il bisogno di ricorrere necessariamente ai massimi sistemi. In particolare il fischiettio di Giancarlo, in The Broken Parts, che si sostituisce al ben noto fraseggio di sintetizzatore, diviene il simbolo dell'intera operazione compiuta in questo strano live album, per nulla pubblicizzato in quanto tale, ma anzi percepito quasi come un ulteriore capitolo della discografia dei Nosound. Se esiste una via definibile come “cantautorato ambient”, questa deve essere da queste parti.
Sarebbe stato a mio avviso importante inserire almeno un inedito, nato direttamente in chiave “stripped”: ciò avrebbe spostato altrove l’attenzione, evitando per qualche minuto, il confronto fra il passato e il presente, dando agli appassionati dei Nosound anche un qualcosa in più, nella lunga attesa che li sta separando da un effettivo nuovo album.
Il titolo, tratto dall’incipit de “Le Correzioni”, capolavoro del 2002 di Jonhatan Franzen, richiama questo spirito di ricerca laica dell’universo tangibile, compiuta con una disposizione quasi religiosa e tesa a scorgere il volto segreto, pulviscolare della realtà. Poteva esserci una espressione più calzante per descrivere lo stato di allerta e di riflessione a cui questa musica “molecolare” esorta?

Stefano Fasti

La recensione è stata originariamente pubblicata qui: 

Links:
Official site: http://www.nosound.net/